Roberto Saviano's Blog, page 22
July 7, 2015
Il mio video intervento al Festival letterario di Paraty
Come in un domino, affare dopo affare, il traffico internazionale di droga sta colpendo tutti i paesi del mondo. Il narcotraffico è una componente del sistema capitalista. Mafia, politica, economia sono fili di una medesima trama.
Anche in Brasile la criminalità viene oggi analizzata in questa prospettiva, sebbene ci sia ancora chi preferisce sminuire il fenomeno parlando delle strutture mafiose di San Paolo o di Rio come “quadrilhas”, bande di gangster.
Ho portato queste riflessioni al pubblico del FLIP, il Festival Internazionale di Letteratura di Paraty, al quale ho potuto partecipare attraverso un video. Sono certo però che il dibattito, che parte dai libri e prosegue nelle piazze reali e virtuali di confronto, sia necessario e possa contribuire a stimolare l’approfondimento per cambiare le cose.
Parlarne può dare molto fastidio, quel fastidio che ho colto anche nella borghesia brasiliana che vorrebbe tenere l’immagine della criminalità legata al mondo delle favelas.
Ma la creazione di un potere economico criminale non può realizzarsi senza un legame stretto con la borghesia del paese. Il petrolio bianco, la coca, accomuna in un unico percorso, che sottende alla criminalità organizzata, la parte povera e quella ricca del mondo.
Qui potete ascoltare e leggere il dibattito – un dibattito necessario – che si è svolto al FLIP.
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La camorra, i giornalisti stranieri e quel vivido interesse a capirne di più
In questo ultimo periodo, in concomitanza con l’uscita di ZeroZeroZero negli USA e in Gran Bretagna, ho avuto l’occasione di incontrare molti giornalisti stranieri che mi hanno dato l’opportunità di portare a pubblici nuovi l’approfondimento e le storie di cui mi occupo ormai da dieci anni.
È molto affascinante cogliere in ciascuno di loro un vivido interesse a capire e trovare parole vere per raccontare la criminalità organizzata nel mondo, così come ad entrare nella quotidianità della mia vita in punta di piedi o con l’irruenza di un cronista di strada. Sono approcci diversi ma tutti egualmente utili a ricostruire la complessità del mondo di cui mi occupo e in cui tutti noi, più o meno coscientemente, viviamo.
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July 6, 2015
In Messico si continua a morire per un articolo
Nei giorni scorsi altri due giornalisti sono stati uccisi in Messico per colpa del loro mestiere. Filadelfo Sanchez Sarmiento, 45 anni, direttore ed una delle voci più autorevoli di radio ‘La Favorita 103.3’ di Miahuatlán, nello stato meridionale di Oaxaca, è stato ucciso da due killer mentre lasciava la redazione giovedì mattina. Contro di lui sono stati sparati più di cinque colpi di arma da fuoco, che hanno ferito anche due persone che erano accanto a lui in quel momento.
Come per la maggior parte dei casi di omicidio di giornalisti, anche quella di Sarmiento sembra essere una morte annunciata, dal momento che il giornalista aveva ricevuto minacce di morte telefoniche in diverse occasioni.
Nelle stesse ore, nello stato orientale di Veracruz, veniva ucciso il blogger Juan Mendoza Delgado e prima di lui, a maggio, era stato trovato morto assassinato nello stato di Oaxaca anche Armando Saldaña Morales, 46 anni, giornalista radiofonico di Veracruz, sparito di casa qualche giorno prima del ritrovamento del suo corpo con ferite d’arma da fuoco.
Secondo CPJ, l’organismo internazionale per la protezione dei giornalisti, il Messico è uno degli stati più pericolosi al mondo per esercitare la professione di giornalista. Dal 2007 sarebbero più di 50 i giornalisti od opinionisti uccisi per aver svolto liberamente il proprio mestiere. Nell’80 per cento dei casi, sempre secondo le ricerche di CPJ, i giornalisti uccisi si occupavano di criminalità organizzata. Ma ciò che aggrava il fenomeno è l’impunità che segue a questi delitti, la maggior parte dei casi resta senza colpevoli.
Il Messico è al settimo posto nella graduatoria degli stati che non rendono giustizia agli attacchi alla libertà di stampa. I primi tre posti sono occupati dall’Iraq, dalla Somalia e dalle Filippine. Dal 2014 in questo triste elenco si è inserita anche la Siria.
Chi non viene assassinato viene messo a tacere per sempre dietro alle sbarre. È così che l’Egitto, ad esempio, impedisce ai giornalisti di esercitare la libertà di espressione. A un anno dall’elezione del presidente Abdelfattah el-Sisi sono diciotto i giornalisti rinchiusi nelle prigioni egiziane vittime di un sistema che sta stringendo sempre più la morsa contro i diritti umani.
Anche in Turchia l’uso della giustizia per reprimere la libertà di stampa sta diventando un fenomeno sempre più frequente. Dopo il caso della giornalista televisiva Sedef Kabaş, l’ultimo a farne le spese è stato Mehmet Baransu, corrispondente del quotidiano Taraf, già indagato per l’acquisizione di documenti segreti correlati all’inchiesta sulla corruzione di alti funzionari di governo, che ha scoperchiato uno scandalo alla fine del 2013. Taraf è stato condannato a fine giugno a 10 mesi di prigionia per aver offeso via Twitter il presidente Erdogan. I tweet e retweet incriminati sarebbero partiti da profili contraffatti del giornalista arrestato.
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July 4, 2015
Bravo Lagioia, ma il premio Strega rischia di diventare il premio Segrate
E ora tutti possono dichiararsi soddisfatti. Il premio Strega è stato vinto da uno scrittore di qualità come Nicola Lagioia, che conosco da molti anni.
Elena Ferrante che avevo proposto, (forse l’autrice italiana più internazionale che abbiamo in questo momento) è stata ammessa, bontà loro, alla corsa malgrado l’anonimato: ha varcato persino la soglia della “cinquina”, ma oltre il terzo posto non è potuta andare. Non si può pretendere troppo. L’onore è salvo, il premio Strega è vivo, viva il premio Strega.
“Saviano si è permesso di dire chi non vota un certo libro è camorrista e schiavo di chissà quali poteri” ha detto Tullio De Mauro in tv. Deve essere stata l’euforia della serata a farlo parlare così: suvvia, caro De Mauro, la camorra è una cosa seria, e non mi sono mai sognato di nominarla per una manifestazione come il premio Strega. Lasciamo stare i clan criminali.
Però mi piacerebbe che De Mauro riflettesse sul fatto che il bravo Lagioia è pubblicato da Einaudi: casualmente certo. E che altrettanto casualmente il secondo classificato, Mauro Covacich è pubblicato da Bompiani (gruppo Rizzoli).
E che invece la Ferrante è edita – guarda caso – da una piccola casa editrice: la e/o. Vorrei ricordargli che gli ultimi dieci premi Strega sono un affare a due tra gruppo Mondadori e gruppo Rcs (per la precisione: 4 Mondadori, 3 Einaudi, 2 Bompiani, 1 Rizzoli). Bisogna risalire al 2005 per trovare un romanzo di Feltrinelli (Il viaggiatore notturno di Maggiani).
Domando: è davvero possibile che nessun altro editore, in questi dieci anni, abbia pubblicato un romanzo degno dello Strega? Ed è lesa maestà chiedere cosa succederà l’anno prossimo, se – come sembra assai probabile – nascerà il colosso Mondadori – Rizzoli?
A quel punto lo Strega rischierebbe di svolgersi, invece che a Valle Giulia, direttamente a Segrate.
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July 3, 2015
LA RAGNATELA DELL’ILLEGALITA’ AMBIENTALE CHE SOFFOCA IL PAESE
Nella notte tra sabato e domenica, nell’ultimo weekend di giugno, un rogo doloso appiccato da più punti ha incendiato una megadiscarica abusiva. Non siamo in Campania ma nei pressi di Chieti, in quella che è stata già ribattezzata la Terra dei Fuochi abruzzese.
La discarica abusiva era stata sequestrata nel 2009 e dimenticata per sei anni. Qualche settimana fa il quotidiano Il Giorno aveva filmato dei documenti, dimenticati in una baracca all’interno della discarica, che mettevano in collegamento i rifiuti presenti nella discarica chietina con quelli provenienti dalla Campania. Rifiuti tossici, medicinali, veleni.
Tutto è bruciato e con il fuoco si sono perse anche quelle carte.
L’episodio è la testimonianza di quanto racconta Legambiente nel suo ultimo rapporto sulle ecomafie.
I reati ambientali costellano tutto lo stivale senza escludere nessuna regione. Da anni ormai la criminalità legata al ciclo dei rifiuti non appartiene a geografie distinte.
I numeri del rapporto sono impietosi: Puglia, Sicilia, Campania e Calabria occupano in quest’ordine la classifica dell’illegalità ambientale per numero di infrazioni accertate. Il Lazio resta la prima regione dell’Italia centrale. Il record del Nord lo detiene la Liguria, accompagnata dal Veneto e dalla Lombardia. Ma a colpire è l’aumento delle infrazioni nelle regioni più piccole, le Marche, l’Abruzzo, l’Umbria, il Friuli Venezia Giulia.
A guardare bene, nessuna può più chiamarsi fuori.
Il giro d’affari del crimine ambientale nel 2014 è di 22 miliardi di euro ed è cresciuto del cinquanta per cento rispetto all’anno precedente (+ 7 miliardi, di cui 4,3 solo nel settore agroalimentare). Gli illeciti accertati sono quasi 80 al giorno, 22.293 in un anno.
Negli appalti pubblici il sistema si arricchisce con la corruzione, che ha avuto un ruolo determinante in 233 inchieste in tutta Italia, che hanno condotto all’arresto di 2.529 persone, altre 2.000 sono state denunciate. Il lavoro della giustizia coinvolge 64 Procure in 18 regioni su 20. Una ragnatela che soffoca l’Italia e che ha la testa in Lombardia, dove la corruzione legata all’illegalità ambientale entra in 31 inchieste.
I traffici di rifiuti sono connessi ai reati nella filiera del cemento, ma l’elenco dei “temi criminali” è lungo: agroalimentare, recupero energetico, incendi, archeomafia e perfino il racket degli animali.
Dal 19 maggio nel Codice penale ci sono 5 nuovi delitti: l’inquinamento e il disastro ambientale, il traffico e abbandono di materiale radioattivo, l’impedimento del controllo e l’omessa bonifica. Le pene previste vanno dalla reclusione da 2 a 6 anni per il delitto di inquinamento a quella da 5 a 15 anni per il disastro ambientale. Sono previste anche le aggravanti per lesione, morte ed ecomafia. I termini di prescrizione raddoppiano e si possono eseguire confische dei beni. Ma ciò che più conta è che i magistrati potranno ricorrere a strumenti di repressione e indagine più efficaci, come l’arresto in flagrante, le intercettazioni telefoniche e ambientali, le rogatorie internazionali. Resta immutato il reato di disastro innominato, con il quale le Procure avevano aperto inchieste ancora in corso, come quella all’Ilva di Taranto.
Sarà interessante vedere come il nuovo sistema penale degli ecoreati cambierà la fotografia del rapporto 2016. Intanto qui potete leggere una sintesi del rapporto 2015.
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LA MIA INTERVISTA ALLA CNN PER “AMANPOUR”
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18 ANNI ALLO SCAFISTA DELLA STRAGE DI LAMPEDUSA DEL 2013. LA GIUSTIZIA BATTE SUL TEMPO LA POLITICA
Era il 3 ottobre del 2013 quando a poche centinaia di metri dalla costa di Lampedusa un barcone di circa 20 metri sprofondava nel Mediterraneo con più di 500 eritrei a bordo.
Due giorni fa il GUP del Tribunale di Agrigento ha condannato a 18 anni di carcere Khaled Bensalem, lo scafista tunisino di 36 anni accusato di aver provocato la strage che causò la morte di oltre 300 persone.
La giustizia è arrivata, dopo un anno e mezzo, grazie ad un rito abbreviato.
Lo scafista organizzava spesso, secondo la Procura, viaggi della speranza. Era conosciuto come “white man” per la pelle un po’ più chiara dei suoi “compagni di viaggio”. L’ultima attraversata lo ha trasformato in un Caronte che solca l’inferno più cupo del nostro mare. Oltre a caricare più di 500 uomini e bambini su una barca che ne poteva traportare al massimo qualche decina, Bensalem aveva anche appiccato un fuoco per segnalare la presenza della nave giunta ormai a poche centinaia di metri dalla riva. L’incendio ha portato a termine quella che ormai era una tragedia prevedibile.
La giustizia ha strumenti per dare risposte. Ricordiamo anche questo quando sentiremo di nuovo invocare “sistemi più risolutivi” come l’ipotesi di fermare con le armi i barconi, accomunando in un unico destino carnefici e vittime.
Piuttosto, non posso fare a meno di riflettere sul tempo trascorso tra le parole pronunciate allora e quelle che accompagnano le stragi di oggi.
Nell’ottobre di due anni fa Jean-Claude Mignon, capo dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, affermava “Dobbiamo far cessare tutto questo adesso. Spero che questa sia l’ultima volta che assistiamo a tragedie di questo genere e lancio un fervente appello affinchè sia intrapresa un’azione puntuale ed urgente da parte degli Stati membri per dar fine a questa vergogna”.
Ad aprile parole simili sono state spese per la strage più grande dall’inizio di questi esodi. Quasi 800 morti di cui la Marina militare italiana sta recuperando i cadaveri in questi giorni.
La giustizia italiana, questa volta, ha fatto più in fretta della politica europea.
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Se difendersi sul web diventa atto politico
Non sono un nostalgico e credo che la nostra società, che questo “qui e ora” spesso tanto vituperato, sia il momento più democratico di sempre. Credo che andando avanti ci sarà sempre maggiore spazio per nuovi diritti e che sia un percorso inevitabile. Procrastinabile secondo alcuni, ma inevitabile.
Negli Stati Uniti, la decisione della Corte Suprema di rendere incostituzionali le leggi statali che vietano il matrimonio gay è un esempio di come, all’improvviso, tutto possa cambiare e anni di attivismo e di sofferenze vengano riconosciuti. Di come si riesca alla fine a porre rimedio a ingiustizie perpetrate per troppo tempo. E il ministro della Giustizia texano potrà anche offrire ai funzionari che si rifiuteranno di celebrare nozze gay tutto il supporto legale che vorrà, ma non riuscirà a bloccare un diritto che si è realizzato. Forse potrà ostacolarne il compimento per un breve periodo e in un perimetro limitato, ma poi dovranno, lui e i suoi funzionari, capitolare alla cosa più naturale che ci sia: il progresso.
Se tutto questo è possibile, e soprattutto se è possibile in tempi relativamente più brevi rispetto a qualche decennio fa, lo si deve essenzialmente alla morte del pensiero unico che solo era in grado di creare dibattito e alimentarlo.
Ciò che è accaduto ad Adriano Sofri nelle scorse settimane, ha reso palese come il dibattito non si sia esaurito agli editoriali in edicola, ma sia continuato e sia stato alimentato da voci più o meno note, intervenute in rete.
Il ministro della giustizia Andrea Orlando aveva invitato Adriano Sofri a partecipare agli Stati Generali sull’Esecuzione della Pena, in qualità di esperto di “Cultura, istruzione e sport nel carcere”. Ma in seguito a polemiche con le quali non concordo, Sofri ha deciso di rinunciare all’incarico spiegandone il motivo non solo sulla carta stampata, ma scrivendo un lungo post. Sofri ha compreso che quello era il mezzo più adatto per rendere virali delle parole che andavano lette e secondo me condivise.
E io le condivido, non solo come si dice in gergo social, diffondendole ovunque sia possibile, le condivido anche nel loro contenuto, per molte ragioni che provo a elencare. Le condivido perché qualunque apporto al miglioramento della situazione in cui si trovano le carceri italiane lo trovo doveroso. Le condivido perché le carceri (contrariamente a ciò che qualcuno pensa) non sono hotel a 5 stelle. Le condivido perché il punto di vista di chi ha vissuto diverse realtà carcerarie può essere, anzi è, fondamentale. Le condivido perché, così come sono, le carceri si dimostrano palestre di criminalità e raramente luoghi di recupero e rieducazione.
Le condivido perché le carceri sono la cartina al tornasole dello stato di salute della democrazia in un paese. Le condivido perché non dobbiamo vivere il carcere in prima persona per capire che ci riguarda e che il nostro dovere non è solo preoccuparci di pagare affitto, mutuo, acqua, gas e spazzatura, ma anche rendere migliore la vita di chi ha sbagliato e che mai smette di essere parte della società. Le condivido perché la vita è più complessa di una condanna e di una detenzione: dobbiamo sempre sforzarci di andare oltre. Dobbiamo sforzarci di avere un’opinione nostra e smettere di accettare quella più semplice che spesso è anche la più sbagliata.
Ed è sempre l’Italia manettara, rappresentata dal segretario del Sappe (sindacato di polizia) che non perde occasione per difendere, come è accaduto per la morte di Federico Aldrovandi, agenti che hanno commesso crimini in divisa, a urlare più forte.
Eppure la rinuncia di Sofri, che potrebbe sembrare una sconfitta e una resa all’Italia peggiore, è un atto politico sul quale tutti siamo chiamati a riflettere e che tutti, grazie al web, possiamo commentare. Non solo chi gode di spazi e di attenzione.
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June 30, 2015
L’EUROPA RINUNCI ALLE PAURE E TORNI A SOGNARE
La scorsa settimana Obama ha vinto due partite giudiziarie importantissime che incorniciano la strategia politica del presidente americano in una visione più ampia che abbraccia anche la sfera dei diritti personali.
Le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti ammettono, una, l’estensione del riconoscimento delle nozze gay in tutti gli Stati della federazione e, l’altra – ancor più storica – la legittimità dei sussidi federali per consentire anche ai redditi più bassi l’accesso a una polizza sanitaria in tutti i paesi.
La ripresa economica, in sostanza, deve andare di pari passo con l’accelerazione nel riconoscimento dei diritti civili e sociali.
Qualche repubblicano ha minacciato azioni forti, soprattutto contro il primo dei provvedimenti, che può fare breccia negli animi della parte più conservatrice del paese. E’ il caso del Ministro della giustizia del Texas, Ken Paxton, che ha deciso di riconoscere ai funzionari locali che saranno chiamati a trascrivere le nozze gay la possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza per motivi religiosi.
Ma sono ipotesi destinate a restare isolate perché i funzionari rischiano la denuncia se rifiutano di celebrare matrimoni gay che ormai hanno il valore di diritto costituzionale.
Gli Stati Uniti danno in questa fase una lezione alla vecchia Europa, dove non solo la crisi resta un dato di fatto, ma aumentano le paure e si mettono sempre più in discussione i diritti fondamentali.
L’Europa non insegue più sogni di progresso. L’allarme economico è stato lanciato qualche giorno fa dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco che senza giri di parole ha parlato di stagnazione sia per l’Italia che per l’Europa, per le quali serviranno ancora degli anni prima di tornare ai livelli produttivi del 2008.
Intanto crescono le paure.
Il dramma dei migranti stenta a essere affrontato dalla giusta prospettiva. Ciò che emerge giorno dopo giorno è una totale assenza di responsabilità nell’affrontare l’emergenza, ma anche una mancanza di visione umanitaria del fenomeno. L’esito delle elezioni in Danimarca ne è una diretta conseguenza, come i dibattiti apocalittici che si susseguono di paese in paese. Compresa l’Italia, dove la frontiera è una ferita e il fenomeno viene approcciato con il macabro gusto del business. Un quadro che lascia spazio a un’arretratezza di pensiero che mette in discussione premesse che per un paese europeo dovrebbero essere assiomi: il dovere dell’accoglienza e il diritto a essere felici altrove.
In questi spazi trovano voce le minacce del governatore della Lombardia Roberto Maroni, pronto a togliere fondi finanziari regionali alle amministrazioni locali che si mostrano non semplicemente solidali con i migranti, ma capaci di dare risposte, in attesa che ad altri livelli si studino piani risolutivi. Sempre la Lega, per voce del suo segretario Salvini, invoca stati di polizia, buttando benzina sul fuoco delle paure.
E più le paure crescono, più è forte l’immobilismo. L’Europa, l’Italia, sono come bambini bloccati dal terrore nel buio, un terrore che si alimenta dell’incapacità di muovere un passo verso una via di luce.
E così si affonda nell’oscurità di discussioni inutili a risolvere i problemi. Ne è un esempio il primo atto del neo sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, che ha messo all’indice i libri a disposizione di insegnanti ed educatori delle scuole dell’infanzia della città lagunare, nell’ambito di un progetto sull’integrazione e sulle diverse forme di famiglia. Tra quei libri ci sono storie illustrate da Altan, l’autore della Pimpa, che raccontano di famiglie con due mamme o due papà o storie di famiglie “allargate”. Quella di Brugnaro non è solo la negazione di un diritto di espressione, ma un modo per spostare l’attenzione dei cittadini su altro e alimentarne le paure.
Sta succedendo anche in Turchia, dove i risultati delle ultime politiche, che hanno premiato il Partito Democratico dei Popoli dando speranza ai movimenti progressisti e democratici del paese, si schiantano contro il muso duro della politica di Erdogan, che al dialogo preferisce la repressione. È successo di nuovo durante il gay pride di domenica a Istanbul, con la polizia che ha impedito ai manifestanti di riunirsi in piazza Taksim, luogo storico delle proteste pubbliche, aprendo gli idranti e sparando proiettili di gomma sulla folla.
Quel che è certo, è che l’Europa non uscirà dalla crisi se non troverà il coraggio di riprendersi il ruolo di incubatore del progresso.
Redazione – Silvia Savi
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June 26, 2015
Due storie meridionali per tornare a sperare
Quando osservi il tuo paese da lontano tutto ti sembra drammatico. Le notizie che arrivano spesso non lasciano margini di speranza, perché non intravedi un cambiamento vero.
Quasi ovunque le ultime elezioni non sono state altro che un braccio di ferro tra pacchetti di voti predefiniti, che più o meno pubblicamente si sono promessi future alleanze o si sono voltati le spalle per correre da chi garantiva maggiori spazi. Nulla di nuovo, ma tanto più evidente a causa dell’elevatissima percentuale di astensionismo.
Il voto di opinione, salvo che per il Movimento 5 Stelle, non esiste praticamente più. Non venissero quindi a dirci, come ha fatto Berlusconi per anni, che la volontà popolare rispecchia i risultati politici, perché è una bugia che oggi non regge.
Sono gli accordi lo specchio dei risultati elettorali e la stanchezza di un elettorato che non si prende nemmeno più la pena di votare scheda bianca. Questa è una sconfitta talmente enorme che nessuna vittoria può controbilanciare. È un dato talmente drammatico che nessuna esultanza post elettorale dovrebbe più essere possibile. Ma solo la consapevolezza che vince chi non cambia, che vince la vecchia politica, quella radicata sul territorio e che ha avuto il tempo di poter fare promesse e talvolta anche di mantenerle (ma promesse più individuali che collettive, promesse ad personam più che da welfare state) quella che ha fallito su tutti i fronti, ma che mantiene feudi inespugnabili. Inespugnabili fino a che non arriverà qualcuno che davvero avrà voglia di scommettere sul nuovo. Per ora la rottamazione, da quelle regioni che più ne avrebbero avuto bisogno, è ancora lontana.
Questo lo scenario. Lo scenario macroscopico. Qui si inseriscono poi storie che vale la pena raccontare perché rappresentano la vera politica, quella che la maggior parte dei politici non fa, perché non conviene. O almeno non nel breve termine.
Due storie meridionali. Protagonisti della prima un americano e una calabrese, Christopher e Regina Catrambone. Regina l’ho conosciuta a Pompei lo scorso sabato dove ha tenuto un toccante discorso al “TEDxPompeii”.
Christopher e Regina fondano una Ong che chiamano Migrant offshore aid station (Moas), comprano un vascello di 40 metri, il Phoenix, e lo dotano delle più moderne attrezzature per il soccorso in mare tra cui droni e gommoni veloci con scafo rigido e salpano verso le acque internazionali per soccorrere migranti. Da agosto a ottobre del 2014 salvano tremila persone.
Ho stretto la mano a Regina, una donna piccina e semplice che sta facendo qualcosa di enorme per il nostro paese. «Non si può fare politica sui morti o sulle persone che stanno morendo. Si può solo cercare di salvarle», queste sue parole sono quelle politicamente più importanti che io abbia sentito negli ultimi tempi.
La seconda storia mi riguarda personalmente. Domenica scorsa a Casal di Principe ho incontrato gli ambasciatori della rinascita. Sono volontari che lavorano a Casa don Diana in un museo che ha una storia incredibile. Si tratta di un bene confiscato al boss casalese Egidio Coppola detto “Brutus” e trasformato in una succursale degli Uffizi grazie al lavoro gratuito di architetti e maestranze locali. Un ragazzo giovanissimo mi ha fatto da guida appassionata attraverso tele di Luca Giordano e Mattia Preti.
E poi due simboli della mia terra che lì acquistano nuovo senso. La “Mater Matuta” proveniente da Capua, dea del Mattino o dell’Aurora, protettrice della nascita degli uomini e, aggiungo, della rinascita della terra avvelenata. E il “Fate presto” di Andy Warhol, grido d’aiuto partito dalle pagine del “Mattino” dopo il terremoto del 1980 che lì, nella patria del cemento e nella terra dei clan che con la ricostruzione post terremoto hanno fatto il salto imprenditoriale, assume nuovo senso.
“Fate presto” a Casal di Principe vuol dire anche altro. Vuol dire venite qui, osservate questo progetto e riproducetelo ovunque. Perché è un’eccellenza e non solo se riferita al luogo in cui è nata, ma è un’eccellenza in senso assoluto. Fate presto, venite qui e capirete che solo da queste storie è possibile ripartire. Da queste storie che ci vengono in soccorso nei momenti di sconforto, quando pensiamo che nulla di ciò che ci circonda abbia senso. Fate presto, rendetevi conto che questa è la vera politica, quella che rende migliore la vita delle persone.
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