Roberto Saviano's Blog, page 24

June 15, 2015

Alessandro Morricella aveva la mia età. Morto mentre lavorava vicino l’altoforno dell’Ilva di Taranto.

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Dopo. È la parola chiave per comprendere l’ultima tragedia che ha segnato l’Ilva di Taranto con la morte dell’operaio Alessandro Morricella. La sua morte è arrivata dopo 4 giorni di agonia dall’incidente sul lavoro accaduto mentre l’operaio trentacinquenne, originario di Martina Franca, stava verificando la temperatura della colata di ghisa ed è stato investito da una fiammata mista incandescente. Ustioni gravissime sul novanta per cento del corpo non hanno lasciato speranza.


La sua morte arriva esattamente 12 anni dopo il decesso di altri due lavoratori, Paolo Franco e Pasquale D’Ettorre che il 12 giugno 2003, persero la vita schiacciati dal crollo di una gru. Alla loro memoria l’associazione 12 giugno, che riunisce genitori, vedove e orfani delle vittime dell’Ilva, ha dedicato quella data per celebrare a Taranto le morti bianche.


Ma la sua morte arriva anche dopo il decesso all’Ilva di altre quattro persone negli ultimi tre anni, Angelo Iodice, Claudio Marsella, Ciro Moccia e Francesco Zaccaria.


Morriccella è morto dopo le puntuali segnalazioni di malfunzionamenti ed avarie dell’impianto da parte dei sindacati. L’esecutivo  RSU Francesco Bardinella e il coordinatore FIOM CGIL Giuseppe Romano, dopo l’incidente di lunedì scorso hanno eseguito un sopralluogo sull’impianto e segnalato nuovamente l’avaria degli ugelli di raffreddamento della “macchina a tappare” e del sistema di regolazione della quantità dell’impianto.


Dopo l’incidente, lo Spesal dell’Azienda sanitaria ha effettuato un sopralluogo nell’area dell’altoforno e ha imposto all’Ilva prescrizioni di sicurezza da attuare entro 60 giorni. Tutto accade dopo l’avvio delle inchieste, del commissariamento e di quella che doveva essere l’era nuova dell’Ilva.


Nello stesso giorno dell’incidente ci si aspettava l’interrogatorio  a  Taranto dell’imprenditore Fabio Riva, figlio dell’ex patron dell’Ilva Emilio e ex vice presidente del gruppo Riva Fire, costituitosi all’aeroporto di Fiumicino dopo più di due anni di latitanza a Londra.   


Avrebbe dovuto parlare al Gip Patrizia Todisco ma ha preferito rinviare a dopo. Parlerà, forse, il 1 luglio, probabilmente per seguire una precisa strategia difensiva che lo porterà davanti  al gup Wilma Gilli che deve decidere sui 52 rinvii a giudizio, tra cui il suo, chiesti dalla Procura nell’ambito dell’inchiesta denominata ‘Ambiente svenduto’. Le accuse sono di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento delle sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, corruzione, falso e abuso d’ufficio.


A Riva è contestato anche un altro reato, in un procedimento aperto dal Tribunale di Milano per truffa allo Stato, avendo ricevuto cento milioni di contributi pubblici senza averne diritto. In primo grado per questa accusa era stato condannato a  sei anni e sei mesi, condanna di cui la Corte d’Appello chiede la conferma.


Bisognerà attendere ancora la verità giudiziaria, la vita svenduta di chi lavora arriverà dopo.


 




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Published on June 15, 2015 05:37

Roberto Saviano Online e The Post Internazionale

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The Post Internazionale è una testata online che riporta i fatti dal mondo e lo fa attraverso il lavoro di reporter italiani che si trovano sul campo.


Ho incontrato Giulio Gambino, direttore di TPI, quando studiava alla scuola di giornalismo della Columbia. Dietro il progetto che dirige c’è l’idea di un giornale che cerca di capire il mondo e di raccontarlo accorciando le distanze. TPI è nato cinque anni fa e utilizza il web per diffondere e condividere informazioni in maniera rigorosa, come un giornale tradizionale.


Sui social è molto seguito e questo dimostra che esiste un pubblico attento al racconto internazionale, smentendo il luogo comune secondo cui il lettore italiano, quando si parla di ciò che accade in Africa o in Sud America, chioserebbe nel commento: “Ma parla piuttosto dell’Italia e dei nostri problemi”.


Mi piace il lavoro che fa TPI, ecco perché condividerò sempre più spesso attraverso i miei spazi sul web il loro lavoro. Mi piace dare visibilità alla passione di giovani giornalisti che credono in quello che fanno.


Questo video di un minuto racchiude l’essenza del progetto:





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Published on June 15, 2015 01:16

June 14, 2015

Squillo e droga per il numero due di Israele

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Oren Hazan, vicepresidente della Knesset, il parlamento israeliano, è stato momentaneamente sospeso dal suo incarico, in seguito alle accuse di sfruttamento della prostituzione e consumo di droga mosse dall’emittente privata Channel 2.
 
Il numero due di Israele – membro del partito di centrodestra Likud presieduto dal premier Netanyahu – aveva in gestione un casinò in Bulgaria e agevolava ai clienti l’esercizio della prostituzione, facendo inoltre uso di droghe pesanti, secondo il rapporto dell’emittente israeliana.
 
Il politico ha asserito la propria innocenza e negato ogni tipo d’accusa in una serie di interviste. Il suo avvocato ha dichiarato, inoltre, che Hazan non sarebbe stato in condizione di fare uso di droghe, per via di un problema di salute e che tale consumo avrebbe gravemente compromesso le sue condizioni.
 
Il presidente della Knesset, Yuli Edelstein, ha condiviso un post sulla sua pagina Facebook in cui spiega di aver informato Hazan sull’impossibilità di partecipare alla sessione plenaria in veste di vicepresidente della Knesset, a causa dello scandalo che lo ha visto protagonista su Channel 2.
 
Come riportato sul Guardian, Edelstein spera che il vicepresidente esca pulito da tutte le accuse e in tal caso, sarà felice di scusarsi con lui. Ma nell’attuale situazione, ha affermato di non ritenere eticamente corretto che sia Hazan a guidare le plenarie.


Un assistente di Edelstein ha poi riferito all’agenzia France-Press che Hazan lo ha minacciato di rivelare informazioni sul suo conto. Al momento, il vicepresidente, deciso a far causa all’emittente, è impegnato nelle procedure legali.


Redazione The Post Internazionale – Fernanda Pesce Blazquez




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Published on June 14, 2015 05:29

Droga e machete, quel codice rosso sangue delle gang latine

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Il machete è una sorta di ibrido tra un coltello e una spada, usato per tagliare la canna da zucchero, le noci di cocco e, nelle guerre in Sierra Leone o Ruanda, la spietata arma adoperata per tagliare mani, braccia, piedi.


Vedere usare con disinvoltura il machete in un treno di Villapizzone a Milano, tagliare il braccio a un giovane capotreno per la sola ragione di aver chiesto il biglietto fa credere a nuove invasioni di barbari, terrore che si insinua nella vita quotidiana dei pendolari. In realtà questo episodio c’entra poco con l’ordine pubblico ed è sbagliato paragonarlo alla follia omicida di Kabobo che uccise tre persone in zona Niguarda.


Questa vicenda riguarda il crimine organizzato. I tre ragazzi arrestati secondo le accuse fanno parte delle Maras, precisamente la Mara Salvatrucha: ricordatevi questo nome perché si tratta di una delle organizzazioni criminali più potenti del narcotraffico internazionale. L’FBI descrive Mara Salvatrucha la “gang più pericolosa al mondo” e per contrastarla ha costituito nel 2005 una task force dedicata.


Maroni invita a presidiare i treni con i poliziotti e se serve a sparare. Commento tipico di chi  –  come spesso accade nel suo caso  –  non conoscendo davvero le dinamiche, arriva a dare una valutazione superficiale. La crisi economica sta portando anche le catene dello spaccio dei grandi gruppi criminali italiani a rimodellarsi e queste gang diventano sempre più forti perché sono cinghie di trasmissione tra i piani mafiosi del narcotraffico e quelli dello spaccio porta a porta. In più, la qualità militare che i gruppi mafiosi italiani apprezzano delle Maras è la capacità di controllare i territori, cosa che i piccoli gruppi italiani non sanno più fare se non a stipendi alti.


Può sembrare difficile, vedendo le facce da ragazzini con l’espressione malriuscita da duri dei tre assalitori di Milano  –  Alexis Ernesto Garcia Rojas, 20 anni come Jackson Jahir Lopez Trivino e Josè Emilio Rosa Martinez, 19  –  pensarli parte di una così complessa organizzazione. Per capirlo bisogna approfondire la storia del gruppo di cui fanno parte e contro cui le procure italiane devono iniziare a fare i conti come se affrontassero gruppi mafiosi.


Dal Salvador, durante la guerra (1980 – 1992), sono scappati negli Stati Uniti migliaia di ragazzini senza famiglia, con genitori ammazzati o madri che li preferivano lontani dalla macelleria centroamericana. Tra loro ex guerriglieri del Fronte Farabundo Martì e giovanissimi disertori dell’esercito regolare: sono proprio questi che addestrano gruppi di ragazzini sbandati in bande. Cosi nascono le Maras, gang salvadoregne che prendono a modello quelle di Los Angeles (afroamericane, asiatiche e messicane). In origine, come bande di autodifesa dalle altre gang. Ma con il tempo questa organizzazione sconfigge le altre e inizia a egemonizzare le strade: hanno disciplina militare, violenza estrema, preghiere, patti. Il crimine con regole batte sempre il crimine senza regole.


Le Maras arrivano a scindersi in due grandi famiglie rivali che si differenziano per il numero di ” street ” che occupano: Mara 13, meglio conosciuta come Mara Salvatrucha, e Mara 18, nata da una branca dissidente. Il numero delle strade si riferisce non al Salvador terra d’origine ma a Los Angeles. Accade però che arrivano gli accordi di pace di Chapultepec: guerriglia ed esercito fermano le armi. Il Salvador non è più un Paese attraversato dalla guerra civile ma è in miseria totale e gli affiliati alle Maras negli Usa non hanno molta voglia di ritornare in patria. A costringerli però interviene il governo americano che vuole liberarsi di queste organizzazioni come ci si libera delle zecche, strappandole dalla propria carne: tutti quelli che la polizia riesce a scovare vengono deportati in massa da Los Angeles al Salvador dove molti di loro erano solo nati. Ma come la leggenda narra che le zecche se le si strappa lasciando la testa ancorata sotto pelle il corpo ricresce, anche con le Maras questa operazione non fa altro che strappare solo il corpo che ben presto ricresce generando una diaspora che non rimuove il problema. Anzi lo diffonde.


Oggi le Maras hanno cellule presenti negli Stati Uniti, in Messico, in tutta l’America Centrale, Europa e Filippine. La Mara 18 è molto più grande perché ha deciso di federare nel proprio interno altre etnie di latinos.


In Italia anche la Mara Salvatrucha ha preso altri non salvadoregni come per esempio Trivino, uno degli assalitori del capotreno, ecuadoregno.


All’interno delle Maras tutto è codificato. I segni con le mani (che indicano il numero 18, il 13 o le corna del diavolo), i tatuaggi sul volto, la gerarchia, la musica hip hop. Tutto passa attraverso regole che strutturano e creano identità. Il risultato è un’organizzazione compatta in grado di muoversi velocemente. Elemento più interessante è che sono vere e proprie accademie del crimine, spesso composte da ragazzi tra i 13 e i 17 anni. Per entrare nella gang bisogna superare delle prove: 13 secondi di pugni, calci, schiaffi, sputi. Le ragazze entrano solo dopo aver subito uno stupro da parte dei vertici dell’organizzazione. E la prima regola delle Maras è che una volta dentro non se ne esce più. L’unico modo è la morte. Chi ha provato ad allontanarsi dalle organizzazioni è stato condannato alla pena capitale. Così, la frase che ripetono spesso è: “Vivi per Dio, per tua madre, muori per la gang“.


Non bisogna quindi confondere un’organizzazione così potente con i semplici flussi di immigrazione, si cadrebbe altrimenti nel solito errore, per il quale tanti italiani hanno pagato il prezzo di venire considerati mafiosi negli Stati Uniti solo perché la mafia itolamericana lì è stata potentissima. L’esercito di bambini delle gang (gli affiliati più giovani possono avere anche solo dieci anni) commercia soprattutto in cocaina e marijuana sulla strada. Non gestiscono grandi forniture, non sono ricchi, non corrompono le istituzioni. In strada però sono forti e spietati come killer professionisti. Non sono ascrivibili a un’organizzazione mafiosa classica perché questa è per definizione segreta mentre le Maras sono visibilissime: vogliono esserlo. Si marchiano in volto, si ghettizzano, sono truppe sul campo pronte agli arresti.


Genova e Milano sono le città italiane dove si trova il numero più alto di affiliati alle Maras e alle altre gang di latinos . Dai Latin Kings (veterani in Italia) ai Netas (portoricani e dominicani), dai Trinitarios ai Vatos Locos. Fino, appunto a MS-13 e Mara 18. Sempre di più queste organizzazioni accolgono tra le loro fila filippini, nordafricani e italiani. Sono realtà complesse di cui ci si accorge solo quando usano le lama, anzi la più inquietante delle lame: il machete. Ma prima di quello usato contro il capotreno a Milano ce ne sono stati altri. Il 13 luglio del 2008 nel centro sportivo Forza e Coraggio di via Gallura, durante uno scontro tra Maras, a Ricardo (20 anni) cavano un occhio e gli sfigurano il viso, con il machete. Il 21 novembre 2011 un membro della Mara Salvatrucha viene aggredito con una mannaia dai Netas vicino al Duomo.


Il mio suggerimento per comprendere il fenomeno è dedicare attenzione all’opera di Christian Poveda. Regista francese di origine spagnola, riuscito a entrare come nessun altro nella vita quotidiana delle Maras, con un bellissimo documentario (La vida loca) il cui successo negli Usa spinse i media a chiedere conto al governo salvadoregno. Dal docufilm emerge una storia di miseria e disperazione. Perché le Maras capitalizzano la disperazione e vengono utilizzate dai grandi gruppi di narcotrafficanti come se i loro associati fossero degli schiavi.


Poveda venne ucciso nel 2009 dagli stessi che lo avevano fatto entrare nel mondo “chiuso” delle Maras.




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Published on June 14, 2015 02:58

June 12, 2015

Messaggi semplici per uscire dalla crisi

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Sbagliando si ritiene che progredire significhi diventare impermeabili all’orrore, indifferenti alle sofferenze. Sbagliando si ritiene che il nostro mondo sia il peggiore di sempre, solo perché abbiamo accesso alle informazioni in tempo reale, e uno stupro o un volo che precipita ci vengono comunicati un attimo dopo che sono avvenuti. A noi resta una sensazione di impotenza che ci spinge ad abbassare lo sguardo, a smettere di guardare “fuori” per concentrarci sulle nostre vite, che sono vite private, che crediamo di poter gestire lontano dalle sciagure del mondo. E chi invece ci dice che tutto ci riguarda, che tutto dipende anche da noi, in fin dei conti ci sembra uno stolto che farebbe meglio a badare agli affari propri. A chi ci dice che tutto parte dalla dimensione privata per estendersi poi a quella pubblica, si risponde spesso con una smorfia, o peggio, con l’indifferenza. Tutto scivola, il bene e il male.


Sbagliando si pensa che la bontà sia l’arma dei fessi, dall’altra parte ci sono i furbi, quelli che ce la fanno con l’arguzia che troppo spesso si trasforma in cinismo. Io non mi rassegno e credo che la comunicazione semplice non sia solo per le persone che non hanno studiato e che necessitano di contenuti meno complessi da poter comprendere. Io credo che la comunicazione semplice sia anche e soprattutto per chi ritiene di poterne fare a meno, di chi ormai crede di non aver più bisogno di confronto.


Il Presidente della Repubblica, lo scorso 5 giugno in visita a Expo, ha detto una cosa semplice: «Lo spreco di cibo è un insulto alla società». Una banalità, diranno i soliti. Una banalità che però fa eco ai dati agghiaccianti diffusi dalla Fao, che ci mette in guardia su una percentuale incredibile: il 30% del cibo finisce in pattumiera. «La cultura dello scarto e del consumo illimitato – ha detto Mattarella – non si concilia più con il futuro possibile, né con lo sviluppo economico. È questa la novità del nostro tempo. Uscire dalla crisi vuol dire saper innovare e cambiare rotta». Chiaro, facile, utile.


Uscire dalla crisi significa ascoltare i messaggi più semplici, perché dalla semplicità dipende il nostro futuro, da calcoli immediati, diretti, dai quali chiunque è in grado di tirare le somme. Un patto di cittadinanza contro lo spreco, un patto che coinvolga tutti, perché ciascuno di noi, come consumatore, può dare il proprio contributo.


Dall’altra parte c’è un messaggio altrettanto semplice che mi ha fatto soffrire e allo stesso tempo riflettere. «Ho un tumore al polmone e mi aspettano sei mesi di chemio», Emma Bonino lo scorso gennaio annunciava di avere un tumore e di doversi sottoporre a cure mediche. Credo che non tutti abbiano compreso il motivo di questa esternazione, ma sono sicuro che abbia sortito gli effetti sperati. Ancora una volta Emma Bonino, come da prassi radicale, ha fatto del suo corpo terreno per una battaglia importante; il messaggio che ha voluto trasmettere è semplice ma fondamentale: ho il cancro ma non mi arrendo. Ho il cancro ma non mi chiudo in casa in preda alla disperazione e alla vergogna per una malattia che non percepisco e che non vivo come una punizione divina. Ho il cancro e mi curo perché voglio vivere. Ho il cancro e fino a che potrò farlo, continuerò a lavorare. Ho perso i capelli ma in pubblico mi mostro con turbanti colorati, che sono un messaggio di forza e di speranza.


Ecco cosa significa aver detto sono malata. Significa aver mostrato alle centinaia di migliaia di persone che stanno combattendo un male terribile che ce la possono fare. Che ce la devono fare. E non crediamo che sia scontato combattere con forza una malattia. E non crediamo che sia scontato riuscire a condividere la propria sofferenza e le proprie paure. E non crediamo che sia solo una questione di cultura o di arretratezza. Nella sofferenza non sempre si dà il meglio di sé, come in maniera romantica si è portati a pensare.


La forza dei messaggi semplici – e per comprenderli bisogna avere ancora la capacità di provare empatia verso il prossimo – è che la semplicità del messaggio chiede a chi l’ascolta una presa di posizione e non contempla incomprensione o indifferenza. Nessuna terza via. Il coraggio della semplicità che non permette fughe e si trasforma nel contrario della superficialità e in sinonimo di profondità e comprensione.




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Published on June 12, 2015 05:29

Un pallido sole che scotta

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Se non fosse catalogato come un saggio (e non lo è) Un pallido sole che scotta starebbe negli scaffali delle librerie alla voce letteratura di viaggio. Perché il lavoro che Francesco de Core ha portato nelle pagine del suo nuovo libro altro non è che il minuzioso resoconto di un itinerario letterario nel Meridione, tra la tagliente Africo in Calabria e l’intricata Napoli, un viaggio nel cuore del Sud, come suggerisce la seconda parte del titolo.


Come in una sorta di purgatorio della Divina Commedia, de Core decide di farsi accompagnare in questo viaggio da uno scrittore, ma non da uno soltanto, bensì da molti letterati che conoscono questi luoghi per averli vissuti e raccontati a loro volta in tempi e con sguardi diversi. Non basta un solo Virgilio per aprire gli occhi sul Sud e coglierne le contraddizioni. Non ci sono anime sante e anime dannate, non tutto è nitido e distinto, ma ci si inoltra in un purgatorio dove il tormento è la dimensione vissuta ad ogni angolo di paese, di strada, di roccia, di spiaggia, di mare cobalto in attesa di una definizione che dia rivalsa a tutto questo.


Francesco de Core, giornalista che conosce bene l’attualità del Meridione per averla raccolta di prima mano nei luoghi delle cronache e maneggiata quotidianamente dalla scrivania de “Il Mattino”, ha compreso bene che per raccontare il sud di oggi non basta la presa diretta sui fatti del giorno, ancorchè accompagnata da una solida conoscenza della storia recente e dei fenomeni sociali che la percorrono, è necessario mettere assieme parole vecchie e nuove, in un compendio antologico che mescolando le voci degli altri ne restituisca la complessità eterna.


Come si fa infatti a raccontare “strati di civiltà, la storia del Sud che è greco normanno arabo, terra di conquista che assorbe il passaggio di culture intrecciate nei secoli dei secoli; i monaci basiliani, gli eremiti, le battaglie in campo aperto, truppe imperiali contro soldati musulmani” accontentandosi delle proprie parole.


Così ci sono le parole di Guido Piovene per descrivere la Sila, quelle di Leonardo Sciascia davanti alla certosa di Serra San Bruno, quelle di Corrado Stajano per la tagliente Africo e di Giuseppe Berto per Capo Vaticano. Ci vuole Pier Paolo Pasolini per raccontare il borgo di Casertavecchia.


E non bastano le parole giovani di Elena Ferrante, quelle di Luigi Compagnone, Nicola Pugliese, Giuseppe Montesanto per sprofondare nella Città Corpo di Napoli, dove non può mancare su tutti lo sguardo di un osservatore esule come Gustav Herling, che da straniero seppe immergersi appieno nella sua seconda patria cogliendo le tracce di un futuro possibile.


Questo meridione, ancora lacerato, di un’immensa bellezza naturalistica e artistica sfregiata dalla sciatteria della nuova edilizia, si intreccia con le storie di oggi, di migrazione, di camorra e ‘ndrangheta, di lavoro difficile e de Core rattoppa queste storie, le unisce alle pagine della letteratura passata con una prosa assolutamente lirica, sonora, che restituisce il caldo e la luce, il frastuono e il silenzio, il senso del volo leggero e della caduta nell’abisso, la contemplazione e la fatica.


Ha ragione de Core quando descrive il suo lavoro “non un semplice tuffo nel tempo che fu o una sterile rievocazione di un Mezzogiorno mitico ma una rivisitazione critica di quel passato, remoto e prossimo, alla luce dell’oggi”, necessario a comprendere quanto la letteratura sia fondamentale per fissare la realtà sociale ed economica di un paese e come solo una narrazione a più voci possa restituire, nella fiction come nella cronaca, la complessità del mondo che viviamo.


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Published on June 12, 2015 03:02

June 11, 2015

Premio Strega, quando le teorie dei complottisti fanno sorridere

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In nottata a Casa Bellonci è stata decisa la cinquina di finalisti che si contenderà il premio Strega il prossimo 2 luglio nella serata in programma a Roma al Ninfeo di Villa Giulia.


Tutto previsto, con una sorpresa: tra i finalisti c’è anche Elena Ferrante, ritenuta un outsider ma che qualche tempo fa ho presentato come un’opportunità di dare nuova linfa a una manifestazione ormai prevedibile e che molti ritengono dominata dai giochi delle grandi case editrici. La misteriosa scrittrice e il suo “Storia della bambina perduta” (E/O), sostenuti anche da Serena Dandini, solo pochi giorni fa sembravano allontanarsi dal volo verso la finale.


Ma i risultati hanno ribaltato i pronostici. E alla fine, conteggiate le preferenze degli Amici della Domenica, lo storico corpo votante, dei lettori forti e dei voti collettivi espressi da scuole e università, Elena Ferrante raccoglie 140 voti e si posiziona terza. Al primo posto con 182 voti “La ferocia” (Einaudi) di Nicola Lagioia, seguito da “La sposa” (Bompiani) di Mauro Covacich che incassa 157 preferenze. A contendersi il premio ci saranno anche Fabio Genovesi, con il suo “Chi manda le onde (Mondadori) – 123 preferenze e fresco di Premio Strega Giovani – e Marco Santagata, il cui “Come donna innamorata” (Guanda) arriva a 119 schede.


Con l’avvicinarsi dell’annunciazione della cinquina finale sono circolate voci incontrollate che riconducevano la presenza della Ferrante a una mossa dei vertici dello Strega che, in accordo con i grandi gruppi editoriali, avrebbero chiesto a me di presentarla.


A me sembra piuttosto un modo bizzarro per preparare l’ennesima fregatura e l’ennesimo scambio di voti, insomma una specie di diversivo mal riuscito. Cioè, far sembrare l’esito in caso di vittoria di Elena Ferrante come voluto dai “potenti dello Strega” e in caso di sconfitta come uno scampato pericolo, come un atto legittimo. Interessante vedere la facilità con cui le dinamiche dell’inciucio si trasferiscano, dalla sfera politica, a quelle dei premi letterari.




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Published on June 11, 2015 09:23

In Italia il rispetto della legalità è il vero atto di rottura

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Leggere le dichiarazioni di Vincenzo De Luca su Panorama mi fa tornare indietro ai tempi del Governo Berlusconi. Le stesse parole, lo stesso stile.


Non voglio soffermarmi  a spiegare a De Luca cosa significa vivere sotto scorta. Mi limito a ricordargli che la camorra sta attanagliando la Campania, che Mafia Capitale ha scoperchiato un sistema che altrove avrebbe già fatto saltare l’intera classe dirigente del paese, che ci sono interi quartieri di Napoli che fanno da sfondo a racconti tratti dalle pagine delle inchieste in cui sono riportate le conversazioni raccolte con le intercettazioni telefoniche, non certo uscite dalla penna di un cinico scrittore di noir.


A Napoli le vite di alcuni non valgono nulla. Quelle di altri sono già vite da galera segnate dalla violenza a meno di vent’anni. Le une e le altre si intrecciano in cronache strazianti, al limite del surreale. Ma qui accade davvero.


Accade che nel rione Forcella un immigrato indiano venga preso come bersaglio mobile solo per provare il funzionamento di una pistola, che spara perfettamente e quasi uccide l’uomo. Dall’altra parte del grilletto ci sono Antonio e Cristiano Giuliano, di 26 e 21 anni, che si divertono così, sparando al primo che passa come fosse una lattina. È nelle pagine delle cronache di due giorni fa, in cui si dà conto di sessanta ordinanze di custodia cautelare per fermare la “paranza dei bambini”. Hanno meno di vent’anni, entrano nei negozi, chiedono il pizzo con la ferocia di un habituè del crimine, minacciano persone di trent’anni più vecchie di loro, di far saltare in aria negozi, di “espropriare” le abitazioni private.


Queste sono la Napoli e la Campania di cui la politica si deve occupare. Anche le minacce di morte che ho ricevuto sono scritte nero su bianco nella sentenza che ha condannato per mafia l’avvocato Michele Santonastaso e assolto i due boss di cui era difensore.  Come è emerso dalla sentenza, contro me e altri fu lanciata una vera e propria chiamata alle armi.


E poi mi spiace leggere nell’intervista a De Luca (ripresa qui dall’Huffington Post) che un Governatore invoca un “atto di rottura” per legittimare una breccia che lo salverebbe dall’applicazione della legge Severino. Un vero atto di rottura sarebbe stato lasciare fuori dalle liste i pregiudicati e pretendere dal Governo di riportare la criminalità organizzata ai primi posti dell’agenda nazionale.




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Published on June 11, 2015 09:14

Un appello per l’Istituto Italiano di Studi Filosofici

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“Con la cultura non si mangia” dichiarò l’ex ministro Giulio Tremonti, membro del governo di un Paese che custodisce il maggior numero di siti Unesco nel mondo. Fu l’inizio del taglio drastico ai contributi pubblici che avevano sostenuto fino ad allora l’immensa attività culturale promossa dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Che adesso rischia la chiusura, se non riuscirà a far fronte al piano di rateizzazione di Equitalia. Da un anno e mezzo i dipendenti dell’Istituto non percepiscono lo stipendio ma continuano a collaborare e martedì hanno dato vita ad un sit in nel cortile di Palazzo Serra di Cassano per chiedere che l’Istituto, depositario di un patrimonio librario composto da oltre 300 mila volumi, alcuni rarissimi, e fulcro di un’intensa attività umanistica internazionale, sia salvato. Nel 1993 l’Unesco dichiarò che l’Istituto non ha pari al mondo per ricchezza e cultura e la Sovrintendenza ai beni librari della Regione Campania ha riconosciuto nel 2008 il valore della raccolta.


L’Istituto, che ha il volto umano del suo fondatore Gerardo Marotta, si è sempre distinto per non racchiudere la cultura di cui è custode in torri d’avorio, ma per farla sconfinare nelle scuole, nei quartieri, nelle periferie con un’intensa attività di incontri, seminari, laboratori, che ha fatto dell’Istituto anche un motore sociale.


Nel 2001, difronte all’esigenza di salvaguardare i libri e migliorare la fruizione di questo enorme patrimonio, la Regione individuò a pochi passi dalla sede di palazzo Serra di Cassano uno stabile dell’ex Coni adatto ad ospitare la biblioteca. Su questo progetto, finanziato anche con fondi europei, si è inserita nel 2011 una nuova progettualità regionale, che intendeva sfruttare gli stessi spazi per inserirvi due elementi che snaturano il progetto originario. I locali vengono infatti destinati anche a «fondo iniziale dei volumi che obbligatoriamente vengono trasmessi in copia alla Regione Campania da editori e aziende tipografiche allorquando pubblicati e una “biblioteca pubblica a scaffale aperto”. Il progetto originario, invece, prevedeva l’utilizzo degli interi spazi a favore della biblioteca dell’istituto con un sistema di scaffalature compatte che consentisse l’archivio di tutto il patrimonio librario in condizioni di sicurezza.


Quarant’anni di attività sepolti dalla miopia e dalla burocrazia, mentre da tutto il mondo le voci delle teste pensanti più importanti della contemporaneità si levano a difesa di questo riferimento internazionale per la cultura umanistica.


Fu “La fine della civiltà” di Benedetto Croce ad ispirare la fondazione dell’Istituto nel 1975 per allontanare il pericolo di lasciare il governo della società al solo potere dei burocrati.


L’Istituto lancia un appello a chi non vuole divenire complice della fine della civiltà e chiede un sostegno per ripartire.


 




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Published on June 11, 2015 02:23

June 8, 2015

La sinistra turca che può unire Europa e Medio Oriente

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“È solo l’inizio”. Questo è stato il motto scelto per lanciare, alla fine del 2013, la nascita in Turchia del Partito Democratico dei Popoli. Un anno e mezzo dopo,  è solo l’inizio di una strada nuova che si apre al futuro della Turchia, ma anche dell’Europa e del Medioriente, se sapranno cogliere i segnali del risultato elettorale che ieri ha sconvolto le aspettative del presidente Erdoğan.


L’HDP si presentava per la prima volta alle elezioni politiche puntando a superare la soglia di sbarramento del 10 per cento che finora aveva tenuto alla porta le minoranze, in particolare curde e armene. Con il 13,12 per cento e i quasi 80 seggi conquistati l’HDP porta in Parlamento una sinistra nuova che unisce le varie componenti etniche e religiose del paese, ma dà voce anche alla comunità LGBT, agli ecologisti e ai sostenitori di una più ampia democrazia partecipativa. Il candidato dell’ HDP Selahattin Demirtas, l’Obama turco, sta lanciando la sfida ad ogni pregiudizio.


Il suo partito, che raccoglie l’eredità del BDP, il Partito della pace e della Democrazia, ampliandone la visione fino ad abbracciare la lotta alla corruzione e al fondamentalismo islamico, l’opposizione all’Isis e all’ingresso imperialista in Siria, potrebbe diventare l’interlocutore privilegiato dell’Europa per affrontare la crisi in Medioriente.


Con oggi si apre una settimana cruciale per il futuro non solo della Turchia, ma dell’intero bacino del Mediterraneo. Il voto di ieri, che ha segnato uno stop all’assolutismo maggioritario del partito di Erdoğan, rivela che il Paese è pronto a cambiare tutto, ma che ci vuole uno sforzo anche da parte dell’Europa per accompagnare questa delicata fase evolutiva ed evitare che vecchi schemi consentano che tutto resti come prima.


L’attenzione è rivolta alle prime mosse che il presidente Recep Tayyip Erdoğan farà dopo l’esito del voto che per la prima volta dalla sua ascesa al potere nel 2002 vede il suo partito, l’AKP, perdere la maggioranza assoluta. Non è facile immaginare che Erdoğan sia disposto ad abbandonare il suo progetto di assolutismo per abbracciare una via di alternanza democratica per il paese. Fino a sabato l’aspettativa del presidente, sostenuta dal premier Ahmet Davutoglu, era conquistare il 60 per cento dei seggi del Parlamento per poter dar corso, senza alcuna opposizione, alla modifica della Costituzione e trasformare il paese in una Repubblica presidenziale. Di fatto, l’anticamera ad una dittatura del Presidente legittimata dal voto.


Ma lo spoglio delle schede  – avvenuto sotto gli occhi attenti di oltre 50 mila volontari e osservatori dell’Osce che hanno garantito la massima trasparenza davanti al fortissimo rischio di brogli, anche durante l’ingresso ai seggi – hanno consegnato un quadro ben diverso della composizione parlamentare.


I ragazzi di Gezi Park, la rivolta che segnò nel 2013 uno dei passaggi chiave della protesta alla recrudescenza antidemocratica del governo filoislamico, oggi sono rappresentati in Parlamento e possono dare voce alle minoranze e vigilare sull’operato del futuro governo. Solo due anni fa, gli scandali dell’inchiesta sulla corruzione portò alle dimissioni di quattro ministri, ma non bastò a far vacillare l’onnipotenza del binomio Erdoğan – Davutoglu.


In questi anni i bavagli alla stampa si sono fatti sempre più stretti (ricordate il recente caso del tweet della giornalista Sedf Kabaş) i tentativi di protesta schiacciati dai lacrimogeni e  dagli assalti della polizia (la rivolta di Gezi Park costò la vita a 9 persone), i social media oscurati con il pretesto della sicurezza nazionale e i diritti civili, in primis quelli delle donne, minacciati dai messaggi di una cultura sempre più maschilista (secondo il vicepremier Bülent Arınç, dirigente del partito islamico AKP, le donne non dovrebbero nemmeno ridere ad alta voce in mezzo alla gente). Questa stessa campagna elettorale è stata segnata dal sangue fino a poche ore dall’apertura dei seggi, venerdì pomeriggio, quando a Diyarbakir, la più importante città curda nel Sud-Est della Turchia, durante un comizio dei militanti di HDP, due bombe sono esplose uccidendo quattro persone e ferendone centinaia.


Quello che accadrà questa settimana, quindi, sarà determinante per capire se la Turchia riuscirà ad imboccare la strada verso una democrazia reale e aperta all’Europa o se prevarrà il desiderio di onnipotenza del presidente, cui spetta la mediazione nel creare un  governo di coalizione, magari debole al punto giusto da poter preparare il terreno per altre elezioni anticipate.


I tre principali partiti di minoranza – oltre all’HDP di Demirtas, l’ex partito kemalista che ha mantenuto il 25 per cento e il partito nazionalista MHP che ha conquistato oltre il 16 per cento di voti – prima di domenica avevano dichiarato la propria volontà di non cercare alleanze con Erdoğan, ma di preferire la via dell’opposizione democratica.


Intanto fanno il giro del mondo le immagini della notte di Diyarbakir, le bandiere e le foto di Demirtas sventolate da migliaia di uomini e  donne in festa per il partito che ha davvero vinto queste elezioni.


Redazione – Silvia Savi




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Published on June 08, 2015 09:47

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