Roberto Saviano's Blog, page 28
March 22, 2013
Ecco il prezzo dei nostri voti.
Un lavoro a termine. Una lavatrice. Una ricarica da 50 euro per il cellulare. Nell’Italia in crisi, anche il mercato dei voti si adegua: ora comprarsi le preferenze costa poco, anzi pochissimo. Una pratica che parte dal ‘voto di scambio’ criminale ma è molto più pervasiva. E racconta di un Paese corrotto e disperato. Di Roberto Saviano.
Un voto cinquanta euro. Sei voti per quella determinata parte politica: una lavatrice o un frigorifero a scelta. Un voto familiare per una Tac. Un gruppo di voti e la banca eroga ancora soldi niente voti niente credito. Un voto per un paio di scarpe da ginnastica, un lampione nel cortile, biglietti per una partita di calcio. Un tempo lontano dalla crisi votava la famiglia e il primogenito otteneva un posto di lavoro oppure una casa. Oggi, a quanto pare, ci si accontenta anche di molto meno. Come nel dopoguerra, di pacchi di pasta e beni alimentari: siamo in difficoltà e anche chi acquista voti può farlo a buon mercato.
Tra poche ore – domenica 24 e lunedì 25 febbraio – saremo chiamati al voto per il rinnovo dei due rami del Parlamento con una legge elettorale antidemocratica che l’Assemblea uscente non è stata in grado di cambiare. Insieme alle politiche, in Lombardia, Lazio e Molise i cittadini andranno alle urne anche per il rinnovo anticipato dei consigli regionali e per l’elezione diretta dei presidenti delle giunte. Tre regioni simbolo dove il Pdl, i suoi alleati e in molti casi l’opposizione hanno dato il loro peggio, fornendo un quadro di degrado politico e a volte umano che, come spesso mi è capitato di dire riferendomi alle stravaganze e all’efferatezza delle organizzazioni criminali, se un romanziere avesse voluto inventarlo, non sarebbe riuscito ad arrivare a tanto.
Le elezioni non si vincono a Roma, a Milano, a Torino come erroneamente si crede, solo perché le grandi città sembrano terreno di lotta tra idee e programmi. Le elezioni si vincono nei paesi, nelle provincie, porta a porta, favore per favore, promessa per promessa, cinquanta euro per cinquanta euro. Tra le elezioni politiche e il territorio esiste un legame fortissimo, direi indissolubile. Se televisioni e carta stampata ci abituano – o forse ci distraggono – con un dibattito che sembra giocarsi tra i candidati alla presidenza del Consiglio, è sul piano locale che tutto viene definito attraverso un uso del voto che non rispetta il sillogismo ti scelgo perché condivido il tuo programma.
Quanto piuttosto ti voto perché mi hai fatto un favore, perché me lo farai, perché sei in grado di farmelo. O perché mi paghi per eleggerti. Oltre al voto di scambio criminale, quindi oltre alla sistematica truffa ordita in danno della nostra democrazia, truffa che se smascherata può essere sanzionata dalla legge (in verità attualmente le maglie sono piuttosto larghe da garantire impunità in molti casi in cui manifestamente vengono acquistati pacchetti di preferenze), esiste un voto di scambio che definirei “acceleratore di diritti”, qualcosa di “fisiologico” in una democrazia malfunzionante come è quella italiana. Come ho fatto altre volte, ho deciso di aprire una discussione su Facebook. Ho chiesto a chi mi segue di portare le proprie testimonianze sul voto di scambio. Ho chiesto di raccontare quel che hanno vissuto direttamente o che gli è stato raccontato. Il quadro che emerge è drammatico e invito – certo che la sollecitazione cadrà nel vuoto – i partiti politici e il prossimo governo a prenderne atto. E a porvi rimedio, se non fosse che in tanti anni di denunce una cosa l’ho capita: il voto di scambio per molti, per troppi, non è un terribile nemico ma un portentoso alleato, se non addirittura una condizione irrinunciabile.
Le testimonianze raccolte su Facebook mi hanno colpito perché spesso è più comodo un generico: “Si sa come funziona”, senza mai fare luce sui singoli meccanismi, che soli consentono di cogliere la cifra del fenomeno. E invece in molti hanno descritto le loro esperienze, talvolta anche di connivenza. Fabiana ha rifiutato un lavoro in cambio del voto che avrebbe dovuto dare. A Paolo è stato chiesto di sostenere un candidato perché gli fosse confermato il posto. Anna Maria racconta che a Civitavecchia un voto valeva cinquanta euro.
Antonio ricorda che nel suo territorio offrivano in cambio del voto di tutto il nucleo familiare, un lavoro al primogenito.
Paola riporta il caso di un amico in Molise: in cambio di un voto gli hanno dato un contratto a tempo determinato durato pochi mesi. Eva dice che a Scandicci molti ragazzi hanno venduto il voto per una ricarica al cellulare da cinquanta euro. Serafina rievoca come negli anni Sessanta avevano chiesto a suo nonno (che non ha ceduto) un voto in cambio di un lampione in cortile che, per inciso, sarebbe stato un suo diritto avere. Pino racconta di un meccanismo scoperto dalla Guardia di Finanza: venti euro prima di andare in cabina e venti dopo aver mostrato con il cellulare la foto della scheda completa. Rosalba per voti comunali ha visto regalare buste della spesa, lavatrici, frigo. Maurizio riporta una storia inquietante dall’Abruzzo: sette voti per una Tac urgente. Federica parla di pieni benzina in cambio di voti. Anche a Lipari, informa Matteo, voti venivano comprati a cinquanta euro.
Marù, con molto coraggio, racconta che tutta la sua famiglia ha scelto un candidato in cambio di un’occupazione per il fratello. C’è poi chi ha ricevuto la richiesta di un voto in cambio di un mutuo agevolato: niente voto, niente mutuo. Giorgio racconta di come a Milano a giovani precari, prima delle elezioni, sia arrivata una lettera di “indicazione elettorale” come a dire o eleggete questo candidato o è difficile che sarete riconfermati.
Carlo ammette di esserci cascato, ma di non volerlo rifare. Marianna ricorda che in cambio dell’entrata alla facoltà di Scienze motorie in cui aveva tutti i titoli per accedere, chiesero il voto a lei e a suo padre. Emilia parla di un voto ceduto per un incarico di scrutatore. Angela di voti dati in cambio della promozione dei figli a scuola. Ermanno dalla provincia di Caserta cita voti in cambio di bollette pagate. Sandra ricorda una pratica degli anni Cinquanta “in auge” ancora oggi, distribuzione di pacchi di pasta prima delle elezioni. Simona scrive che in Salento vengono dati voti in cambio di bombole del gas per il riscaldamento. Francesco sa addirittura di 25 euro per la preferenza alle primarie. Piperita ricorda a Bari nel 2006 di un voto in cambio di 25 euro e un paio di scarpe da ginnastica. Emanuela ricorda come la zia e la sua famiglia avessero dato il voto a un candidato per un avanzamento nelle liste d’attesa per visite mediche. Antonella la prima assunzione nel 1989 l’ha avuta così, in cambio di un voto. Roberto descrive navette organizzate a Pozzuoli per accompagnare al seggio persone scortate fino alla soglia delle urne, per fare pressione psicologica. Celine da Aosta parla di voto in cambio dello sconto sull’assicurazione.
Rossella da Castrovillari scrive che nella sua città un politico ha contattato gli studenti fuori sede per chiedere il voto in cambio di un volo andata e ritorno. Giulia da Padova segnala addirittura che venivano distribuiti grembiuli in cambio di voti. Vincenzo dalla Sicilia riporta un meccanismo secondo cui un voto valeva un buono benzina da cinquanta euro. Rossana da Colleferro dichiara di aver assistito a una campagna elettorale in cui la minaccia era che se non avesse vinto il candidato di riferimento avrebbero chiuso la scuola calcio. Sergio da Casoria spiega che in cambio del voto era stata promessa l’illuminazione di un quartiere. Ennesimo diritto comprato: prima delle elezioni furono piantati i pali senza lampioni. Dopo aver vinto le elezioni, il politico che l’aveva promesso fece mettere anche le luci. E’ evidente che questa prassi è assolutamente trasversale. Riguarda tutti i partiti in tutta Italia, quindi la partitocrazia nel suo complesso, tranne poche eccezioni, irrilevanti ai fini di un’analisi. Marisa mi ricorda che in Tanzania sulla porta del presidente di una regione c’è una scritta in swahili che tradotta vuol dire: “La corruzione uccide il diritto”. Ecco, imparerei da questo presidente tanzaniano e aggiungerei poi che la ragione per la quale è fondamentale debellare la corruzione è che la vita del diritto è l’unica garanzia per il diritto alla vita.
Non si comprende più, nel nostro Paese, il senso di una lotta reale alla corruzione. In ciò, uscire da “mani pulite” per approdare al ventennio berlusconiano, inglobando in esso anche i sette anni di governo di centrosinistra, ha rappresentato il fallimento sul nascere di una prospettiva di cambiamento. Benedetto Croce amaramente affermò una profonda verità quando definì il nostro, il Paese nel quale la controriforma non aveva seguito alcuna riforma. Dopo la catarsi di Tangentopoli arrivò il liberi tutti, travestito da “laissez faire”. E oggi, dopo vent’anni di indecoroso mercimonio, il politico vende le indulgenze. Se il “candidato premier senza esserlo” Silvio Berlusconi è arrivato a promettere restituzioni di soldi in contanti in cambio di voti, sul territorio, nel sottobosco di una campagna elettorale senza dignità politica alcuna, i cacciatori di voti battono il territorio senza tregua. Sono alla ricerca delle disperazioni, delle necessità, dei diritti non concessi, delle storture della burocrazia. Solo in queste settimane lo Stato – sembrano dire e propagandare questi avanguardisti dello scambio elettorale – deve e può occuparsi dei suoi cittadini. I diritti smettono di essere quello che sono stati fino a qualche settimana fa, chimere difficilmente realizzabili.
Smettono di essere sogni da lasciare nel cassetto. Sono di nuovo alla portata dei loro possibili e legittimi titolari: basta pagare una cauzione. Basta rinunciare alla possibilità di esprimere, con il proprio voto, la volontà del cambiamento. E il meccanismo è perfetto, poiché agisce anche sul piano psicologico: che senso ha andare a votare se con la mia preferenza non ho la possibilità di scegliere direttamente il mio rappresentante? Che valore può avere per me un voto che porterà in Parlamento soggetti di cui nulla so e che in alcun modo si sono preoccupati di spiegarmi le ragioni della propria candidatura?
In questo mercato, l’offerta di voti rischia di essere non inferiore alla domanda ed è per questa ragione che, in alcune parti del Paese, un voto può valere una ricarica di poche decine di euro per il cellulare. Come spesso accade, queste realtà, che costituiscono la concreta intelaiatura della democrazia morente, non suscitano alcun interesse. Il paradosso – o meglio la necessaria conseguenza delle cecità – è costituito dal fatto che negli ultimi giorni, chiunque abbia un pulpito a disposizione, ha sentito la necessità di levare alti ammonimenti rispetto ai pericoli insiti nella libera scelta degli elettori.
Come al solito, per i più è la democrazia il reale problema della democrazia. Non sono la corruzione, non la coartazione del diritto di voto; questi sono descritti come mali necessari, fenomeni ininfluenti, parte dell’ingranaggio democratico. Ma non è vero. Chi lo dice, chi lo scrive, è corresponsabile e ha un interesse più o meno consapevole alla perpetuazione di questo ordine di cose. La politica, è bene dirlo con chiarezza, considera il Mezzogiorno un serbatoio naturale del voto di scambio. L’arretratezza ormai definitiva di buona parte del Paese è garanzia di immutabilità; non è un caso che leader politici “di punta” ma senza alcun seguito che altrove avrebbero rischiato di provocare seri danni al consenso elettorale del proprio partito, siano stati candidati in luoghi ben distanti dai collegi di provenienza. Quasi a dire: questo qui solamente in Calabria, in Campania, in Puglia o in Sicilia lo potranno “digerire”. La partitocrazia non ha arretrato di un millimetro in questi anni. Anzi, ha ben pensato di esportare il “sistema” nelle regioni del Nord.
La Lombardia del disastro formigoniano e della corrotta ipocrisia leghista ha fatto da apripista. Nella regione dove l’economia dei servizi, del terziario, si è sviluppata con maggiore velocità, si è potuto apprezzare con assoluta chiarezza il fenomeno del voto di scambio come ramo d’azienda delle attività criminali. Il caso Zambetti, il politico che si è rivolto – e per tale ragione è attualmente indagato e detenuto – a uomini contigui alle cosche calabresi per acquistare un pacchetto di voti è la cartina di tornasole. Questo meccanismo svela un’ulteriore ipocrisia a larghe mani diffusa dalla politica e con successo avallata dalla grande e sarcastica stampa: l’idea che la sconfitta elettorale sia in sé la negazione dell’influenza della criminalità sul voto. Un banale e irresponsabile ragionamento il cui obiettivo è la negazione stessa del potere criminale. E invece, le inchieste hanno chiarito che le organizzazioni, tra i servizi offerti, contemplano anche quello di condizionare il voto, rappresentando l’intermediazione necessaria tra il politico di turno e migliaia di elettori. Migliaia di cittadini ridotti a “pacchetto di voti”, spogliati della loro soggettività elettorale. Si comprende bene, dunque, che a quel punto diviene del tutto irrilevante il risultato elettorale, essendosi già consumato il disastro generato dalla compravendita del voto.
E poi c’è il meccanismo principe con cui si controllano i voti: il metodo della “scheda ballerina”. L’elettore che vuole vendere la propria preferenza va dal mediatore che per conto delle organizzazioni criminali paga i voti, riceve la scheda (sottratta al seggio illegalmente e già compilata) se la mette in tasca poi va alle urne dove riceve la scheda regolare. In cabina sostituisce la scheda già compilata con quella che ha appena ricevuto. Poi torna dal mediatore, consegna la scheda non votata e riceve i soldi. La scheda non votata viene compilata e data all’elettore successivo, che la prende e ritorna con una pulita. E così via. Ecco come si controlla il voto, eppure nessuno ne ha parlato: la scheda ballerina non ha interessato il dibattito elettorale nonostante sia più determinante di una tassa, più incisiva di una riforma, più necessaria di una manovra economica. Mi sento quasi ridicolo e savonarolesco nel continuare a raccontare questo meccanismo e nel constatare il silenzio totale sulla vicenda.
Basterebbe pochissimo: cabine aperte e non chiuse, che diano le spalle al seggio in modo da tutelare la segretezza del voto, ma dando la possibilità di poter monitorare sulle sostituzioni di schede. In questo modo verrebbero controllati migliaia e migliaia di voti, ma a quanto pare a nessuno interessa che il voto esprima un’opinione. La realtà che ci troviamo a vivere è del tutto compromessa. Il voto che ci apprestiamo a esprimere cadrà in un quadro politico del tutto condizionato da fenomeni “fisiologicamente patologici”. Incideranno moltissimo i voti acquistati che in nessun sondaggio appariranno. Forse è il caso di azzerare tutto, di silenziare le offerte mirabolanti che da più parti giungono, per poi venire disattese subito dopo le elezioni. E’ il momento di difendere noi il valore e il senso del nostro voto e del nostro diritto a esprimerlo.
Voto di scambio, la democrazia sotto estorsione.
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Pacchi di pasta, un frigorifero, un lavoro e persino una Tac. Ho raccolto testimonianze impressionanti attraverso i social network sul meccanismo del voto comprato, completamente oscurato da questa campagna elettorale. Un baratto che erode il diritto degli elettori”. L’appello di Roberto Saviano.
February 18, 2013
Questa politica è ancora piena di tabù
A guardare il dibattito di questi giorni, sembra che su tanti temi (dalle coppie di fatto al biotestamento, fino alle adozioni gay) i partiti siano molto più indietro dei cittadini. Di Roberto Saviano.

Ariadna Arantes
Mircea Eliade, autore indispensabile che leggo come bussola per orientarmi nella modernità, scrive: «Sono o diventano tabù – parola polinesiana adottata dagli etnografi – tutti gli oggetti, azioni o persone che recano una forza di natura più o meno incerta».
La funzione del tabù è quella di difendere la comunità da azioni che potrebbero arrecare danno ai suoi membri o da ciò che non si conosce e che quindi genera ansia. Oggi, una società basata su un numero elevato di tabù può dirci diverse cose: che è una società arretrata o che i tabù vengono mantenuti a vantaggio di un esiguo gruppo di persone, che deve la sua sopravvivenza alla sopravvivenza di quei divieti. Alcune comunità vietano ancora le unioni tra etnie diverse, altre l’assunzione di determinati cibi, altre hanno regole rigide sull’abbigliamento e altre ancora sulle “libertà” concesse alle donne. Pur nel rispetto delle diversità, a volte tendiamo a considerare determinati tabù anacronistici e, le società che ancora li osservano, arretrate rispetto alla nostra.
Ciò che mi domando, quindi, è cosa legittimamente deve pensare di noi chi ci osserva a distanza e vede un Paese nel quale non è possibile avviare dibattiti politici su temi vitali come le coppie di fatto, le unioni e le adozioni gay, il fine vita. Per non parlare delle condizioni delle carceri e della legalizzazione delle droghe. Ecco i nostri tabù, che a superarli ci sarebbe forse davvero quel baratro di cui parlava il Cardinal Bagnasco. Ma non per noi, non per la società civile bensì per quella parte di chiesa che ormai si è convinta di poter mantenere un ruolo nel dibattito politico italiano solo grazie a questi divieti. Confrontare ciò che accade qui da noi con quanto accade altrove credo sia cosa naturale. Dopo la Francia, anche in Inghilterra il Parlamento ha detto il primo sì alle nozze gay. A votare la proposta sono stati anche esponenti tory di primo piano. Viene naturale domandarsi quando i conservatori italiani saranno tanto liberali… Qui, nel dibattito elettorale, non si è parlato di matrimoni o adozioni per coppie gay, di adozioni per single. Non si è parlato di fine vita, delle condizioni delle carceri, di legalizzazione delle droghe. Come se l’acquisizione di diritti “nuovi” e fondamentali sia meno importante delle scelte economiche. Falso. Si riparte dai diritti. In una società sana, incline al cambiamento, non ci sono limiti ai diritti che è possibile ottenere senza sottrarre attenzione alle scelte economiche. Può addirittura capitare che il cambiamento avvenga in maniera tutt’altro che traumatica, che avvenga anzi attraverso il gioco, la rappresentazione. A Rio de Janeiro quest’anno il Carnevale ha infranto un altro tabù: per la prima volta nella storia del Sambodromo, una transessuale ha sfilato come “regina di batteria” per il gruppo Unidos da Vila Santa Tereza. La sambista più importante è stata la modella
, protagonista di una campagna pubblicitaria contro i pregiudizi e convinta che la sua partecipazione aiuterà a combattere l’omofobia.
Il carnevale di Rio ha sempre rappresentato l’esibizione del corpo della donna scevro da morbosità, nell’infinito rimando al gioco della vita. La sensualità non è data da parametri di magrezza o dall’essere nata donna, ma dalla voglia di vivere. Ecco perché la donna lì, attraverso l’esibizione del suo corpo, ogni anno sdogana un tabù. L’anno scorso, spopolò Vania Flor, la sambista di 104 chili. Oggi Ariadna, dimostrazione che ogni tabù, ogni stupido pregiudizio, se la mente è libera non ha motivo di esistere. Ciò dimostra che in un paese in crescita come il Brasile sdoganare nuovi diritti è parte del processo.
Inclemente il paragone con l’Italia che sconta ancora un rapporto morboso e non sereno con la sessualità. Dove su questioni che vedono spesso un consenso pressoché generale nella società civile, la politica ancora si nasconde dietro il velo di presunti temi etici. Altro non sono che tabù che fa comodo mantenere, per non perdere consenso, per non perdere voti. «Il Brasile è la somma meravigliosa di ogni possibile contraddizione (…) ed è proprio questo che lo rende così magicamente colmo di luci ed ombre, così fragile, allegro, violento, e tuttavia così impossibile da dimenticare». Mi piacerebbe poter utilizzare queste parole di Jorge Amado per l’Italia. Sarebbe bello se le contraddizioni divenissero la nostra forza e smettessero di essere invece eterna debolezza.
February 11, 2013
Django mi ricorda gli schiavi di Lecce
La condizione degli extracomunitari che lavorano nei campi di pomodori in Puglia non è poi così lontana da quella dei neri al tempo dello schiavismo. Di Roberto Saviano.

Django Unchained
E se le cose fossero andate diversamente? Se qualcuno avesse fatto la cosa giusta al momento giusto? O la cosa più folle all’improvviso? Quentin Tarantino aveva già appagato il nostro senso di giustizia con “Inglorious bastards”. Una frase riscritta, una sola frase per cambiare la storia del mondo. Un epilogo tanto assurdo quanto mille volte rimpianto. Rincorso nei sogni. Da bambino, il mio primo pensiero quando alle scuole elementari studiai la Seconda guerra mondiale fu chiedermi come mai nessuno avesse capito che quelli erano proprio i peggiori e che andavano fermati subito. Non dopo aver invaso mezza Europa. Ora, questo sogno bambino di correggere la storia con “Django unchained” ritorna. La sete di riscatto viene appagata di nuovo. Di riscatto e di vendetta. E l’eroe è un uomo di colore, mortificato nella carne e nello spirito in un’America lontana nel tempo, ma ancora troppo vicina a noi che diamo continua dimostrazione di non aver imparato la lezione.
IL 31 GENNAIO , davanti alla Corte d’assise di Lecce è iniziato il processo a sette imprenditori salentini e nove complici africani, accusati di avere sfruttato decine di braccianti extracomunitari e di aver organizzato il loro arrivo illegale dall’Africa. Tratta di esseri umani in piena regola, procacciamento di mano d’opera, come è avvenuto per secoli: pratica che abbiamo imparato a stigmatizzare pubblicamente, ma a sfruttare nel silenzio dell’opinione pubblica. A un anno e mezzo dall’introduzione della legge contro il caporalato, è questa la prima volta che verrà applicata durante un processo. Dall’estate del 2011 – l’estate dello sciopero dei lavoratori immigrati capeggiato dallo studente camerunense Yvan Sagnet – è la prima volta che i caporali finiscono alla sbarra con imputazioni gravissime. Secondo la Procura Antimafia, le campagne di Nardò per anni sono state teatro di sfruttamento organizzato e sistematico di extracomunitari giunti dall’Africa per lavorare nei campi nella raccolta di pomodori e angurie. Grazie ai Ros e alle denunce delle vittime è emerso uno scenario infernale. Decine di uomini costretti nei campi per più di dodici ore al giorno, in cambio paghe misere, taglieggiati per un giaciglio in casolari fatiscenti o nei campi di ulivi. Costretti a pagarsi acqua, cibo e cure in caso di malori, dopo essersi già indebitati fino al collo con i caporali per il viaggio dalle loro terre d’origine all’Italia. Di tutti i lavoratori vessati solo quattro hanno avuto il coraggio di costituirsi in giudizio. Ma la notizia che più lascia interdetti è che il Comune di Nardò ha deciso di non costituirsi parte civile con questa motivazione: «Nel processo si rilevano reati che astrattamente coinvolgono interessi della comunità di Nardò». E poi c’è l’imputazione fondamentale, la riduzione in schiavitù, sulla quale Procura e Tribunale del Riesame sono in disaccordo. Ma all’esito delle indagini preliminari, il Pubblico ministero ha ribadito le ragioni che portano a ritenere che si tratta proprio di riduzione in schiavitù, desunto dallo «stato di necessità e di inferiorità fisica e psicologica degli extracomunitari, vulnerabili perché immigrati clandestinamente, spinti dall’indigenza, ingannati dalla promessa di lavoro sicuro e regolare, oberati dai debiti contratti con l’organizzazione che ne avrebbe favorito l’ingresso, impossibilitati una volta preso coscienza del loro stato a fare rientro in patria per mancanza di mezzi finanziari, ancora più soggiogabili per la mancata conoscenza della lingua italiana e dei luoghi in cui si trovavano». Il Gup gli ha dato ragione e ha disposto il rinvio a giudizio di tutti gli imputati. La prossima udienza è prevista per il 7 marzo.
PER UNA VOLTA , forse, potremmo dire: e se le cose andassero diversamente? Ci sarà un processo e dobbiamo aspettarne gli esiti per poter valutare torti e ragioni, ma un invito voglio farlo, e non solo ai soggetti coinvolti in questa ennesima raccapricciante vicenda: dobbiamo essere tutti dalla stessa parte che è una. Quella di chi è stato prelevato dalla sua terra con la promessa di una vita migliore, di chi è stato ingannato, derubato, sfruttato, umiliato. Così facendo non denigreremo la nostra terra, non la umilieremo. Non la mortificheremo come vuole farci credere chi preferisce il silenzio alla denuncia. Ma contribuiremo a costruire un’Italia per la prima volta davvero multietnica perché multietnico è stato il contributo di riscatto e di diritto. E magari, quel senso di liberazione che ora solo al cinema riusciamo a provare, per una volta potrà darcelo anche la realtà.
”Voto di scambio, allarme Lombardia”
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La burocrazia ferma genera quelle legittime richieste di aiuto che diventano merce. Una pensione che non arriva, un centro anziani che non apre, magicamente si trasformano in obiettivi possibili perché in vendita. Esiste un preciso tariffario. E l’ultima frontiera è il nord. Dove in questi giorni spopolano i buoni benzina. L’analisi di Roberto Saviano. In studio, Laura Pertici.
Quel voto di scambio che uccide la democrazia
Riparte il mercato delle preferenze, ecco come si controlla. Schede ballerine e voti a 50 euro. Così mafia e ‘ndrangheta fanno eleggere i loro candidati. Di Roberto Saviano.
UNA parte consistente di Italia vota politici che poi disprezza. Una fetta consistente di voti viene direttamente controllata con un meccanismo scientifico e illegale. Il più importante e probabilmente il più difficile da analizzare, quello con cui i partiti evitano sistematicamente di fare i conti: il voto di scambio. A noi sembra di vivere in attesa di un perenne punto di svolta e in questo clima di incertezza siamo portati a pensare che il disagio creato dalla crisi economica, dalla corruzione politica, dalla cattiva gestione delle istituzioni, da venti anni di presenza di Berlusconi non potrà continuare ancora a lungo. Gli osservatori internazionali continuano ad augurarsi che gli italiani prenderanno finalmente coscienza di ciò che gli è accaduto, di tutto quello che hanno vissuto. E prenderanno le dovute misure. Che ne trarranno le giuste conseguenze. Che non cadranno negli stessi errori, nelle stesse semplificazioni. Ci si convince sempre di più di essere a un passo dal cambiamento perché le persone ovunque – in privato e negli spazi pubblici: dai bus ai treni, dai tram ai bar, dai ristoranti a chi viene intervistato in strada – appaiono stanche, disgustate. Vorrebbero fare piazza pulita, ma si trovano al cospetto di un sistema che ha tutti gli anticorpi per rimanere immutabile. Per restare sempre uguale a se stesso. Per autoconservarsi.
Esistono due tipi di voto di scambio. Un voto di scambio criminale ed un voto di scambio che definirei “acceleratore di diritti”. In un paese dai meccanismi istituzionali compromessi, la politica diventa una sorta di “acceleratore di diritti”, un modo – a volte l’unico – per ottenere ciò che altrimenti sarebbe difficile, se non impossibile raggiungere. Per intenderci: ci si rivolge alla politica per chiedere, talvolta elemosinare favori. Per pietire ciò che bisognerebbe avere per diritto. Mentre altrove nel mondo si vota un politico piuttosto che il suo avversario per una visione, un progetto, perché si condividono i suoi orientamenti politici, perché si crede al suo piano di innovazione o conservazione, qui da noi – e questo è evidente soprattutto sul piano locale – non è così. In un contesto come il nostro, programmi e dibattiti, spesso servono a molto poco servono alle elite, alle avanguardie, ai militanti. A vincere, qui da noi, è piuttosto il voto utile a se stessi.
IL DISPREZZO PER LA POLITICA
In breve, una grossa fetta di Italia che nei sondaggi e nelle interviste si esprime contro vecchi e nuovi rappresentanti politici, spesso vota persone che disprezza, perché unici demiurghi tra loro e il diritto, tra loro e un favore. Li disprezza, ma alla fine li vota. Questo meccanismo falsa completamente la consultazione elettorale. Perché a causa della sfiducia nella politica, pur di ottenere almeno le briciole di un banchetto che si immagina lauto e al quale non si è invitati, si è pronti a dare il proprio voto a chi promette qualcosa o a chi ha già fatto a sé o alla propria famiglia un favore. I vecchi potentati politici anche se screditati oggi possono contare su centinaia di assunzioni pubbliche o private fatte grazie alla loro mediazione e da questi lavoratori avranno sempre un flusso di voti di scambio garantito. In questo senso è fondamentale votare politici di navigata presenza perché sono garanzia che quel diritto o quel favore promesso verrà dato. In questa campagna elettorale, come nelle scorse, non si è parlato davvero di come “funziona” il voto di scambio, di come l’Italia ne sia completamente permeata. La legge recentemente approvata in materia di contrasto alla corruzione, sul punto, è assolutamente insufficiente. L’elettore, promettendo il proprio voto, ha la sensazione di ricavare almeno qualcosa: cinquanta euro, cento euro, un cellulare. Poca roba, pochissima: in realtà perde tutto il resto. La politica dovrebbe garantire ben altro. La capacità effettiva di ripensare un territorio, non certo l’apertura di un circolo per anziani o un posto auto. In cambio di una sola cosa, il politico che voti ti toglie ciò che sarebbe tuo diritto avere.
Ma è ormai difficile far passare questo messaggio, anche tra gli elettori più giovani. Sembra tutto molto semplice, ma è difficile far comprendere a chi si sente depauperato e privato di ogni cosa che il modo migliore per recuperare brandelli di diritti non è svendere il proprio voto per un favore. È tanto più difficile perché spessissimo ciò che l’elettore si trova costretto a chiedere come fosse un favore, sarebbe invece un suo diritto, il cui adempimento non è impedito, ma è fortemente (e a volte artificiosamente) rallentato dal mal funzionamento delle Istituzioni. Qui non si sta parlando di persone che truffano o di comportamenti sleali, ma di chi ha difficoltà a vedersi riconosciuta una pensione di invalidità necessaria a sopravvivere, o l’assegnazione di un alloggio popolare piuttosto che un posto in ospedale cui avrebbe diritto. Il disincanto si impossessa delle vittime delle lentezze burocratiche, che presto comprendono che per velocizzare il riconoscimento di un diritto sacrosanto devono ricorrere al padrino politico, cui sottostare poi per un tempo lunghissimo, a volte per generazioni, come accadeva con i vecchi capi democristiani in Campania e nel Sud in generale. Lo stesso accade talvolta per l’ottenimento di una licenza commerciale o per poter ottenere i premessi necessari alla apertura di un cantiere. Diritti riconosciuti dalla legge il cui esercizio, da parte del cittadino, necessita di una previa mediazione politica. E la politica di questo si è nutrita. Di questo ricatto. Ribadisco: non sto parlando di chi non merita, di chi non ha i requisiti, di chi sta forzando il meccanismo legale per ottenere un vantaggio, ma di chi avrebbe un diritto e non è messo in condizione di goderne.
Questo muro di gomma ostacola qualunque volontà di rinnovamento, poiché a giovarne nell’urna sarà sempre e soltanto il vecchio politico e la vecchia politica, non il nuovo. Il vecchio che ha rapporti. Per comprendere i meccanismi di voto di scambio, la Campania è una regione fondamentale, insieme alla Sicilia e alla Calabria. Da sempre, dai tempi delle leggendarie campagne elettorali di Achille Lauro, che dava la scarpa sinistra prima del voto e quella destra dopo. Ma nel resto d’Italia non si può dire che le cose vadano diversamente. Insomma, il meccanismo è rodato, perfettamente rodato e si interrompe solo quando il proprio voto viene percepito come prezioso, come importante per il cambiamento, tanto che non te la senti di svenderlo anche per ottenere ciò che per diritto ti sarebbe dovuto. E ancora una volta, questa campagna elettorale, in pochissimi ambiti si sta declinando sulle idee, quanto piuttosto su un generico rinnovamento a cui il Paese non crede. Più spesso si risponde con rabbia: tutti a casa, siete tutti uguali. L’allarme consistente sul voto di scambio in queste ore è in Lombardia.
A SPESE DEGLI ELETTORI
Ma su chi accede alla politica distrattamente, fa leva il politico di vecchio corso, pronto a riceverti nella sua segreteria e a mantenere la promessa fatta a carica ottenuta. Il politico che non dimentica perché ha un apparato che vive a spese degli elettori, un apparato che è un orologio svizzero: unica cosa perfettamente funzionante in una democrazia claudicante. Ecco perché è sbagliato sottovalutare la capacità berlusconiana non di convincere, ma di riattivare e di rendere nuovamente legittima questa capacità clientelare. Berlusconi non va in tv convinto di poter di nuovo persuadere, ma ci va con la volontà di rinfrescare la memoria a quanti hanno dimenticato la sua capacità di ricatto. Ci va per procacciarsi i numeri sufficienti a garantire, ancora una volta, la totale ingovernabilità del Paese. Ci va perché sa che ingovernabilità significa poter di nuovo contrattare. Quindi ecco le solite promesse: elargirà pensioni, toglierà tasse e, se anche non ci riuscisse, chiuderà un occhio, strizzandolo, a chi non ne può più. Berlusconi va a ribadire che gli altri non promettono nulla di buono. A lui non serve convincere di essere la persona giusta. A lui basta convincere i telespettatori che gli altri sono l’eterno vecchio e lui l’eterno nuovo. Nel momento in cui, quindi, non esiste un’idea di voto che cambi il paese, riparte il meccanismo della clientela. Dall’altra parte, la sensazione è che si preferisca campare di rendita. I “buoni” votano a sinistra. E su questi buoni si sta facendo troppo affidamento. Della pazienza di questi buoni si sta forse abusando. Se, intercettando un diffuso malcontento, Berlusconi promette la restituzione dell’Imu e un condono tombale, dall’altra parte non si fanno i conti con una tassazione ai limiti della sopportazione. Da un lato menzogne, dall’altro nessuna speranza, silenzio. E i sondaggi rispecchiano questa situazione. Rispecchiano quella quantità abnorme di delusi che solo all’ultimo momento deciderà per chi votare e deciderà l’esito. E su molti delusi il voto di scambio inciderà negli ultimi giorni.
Ogni partito in queste elezioni, come nelle precedenti, ci ha tenuto a conservare i suoi rapporti clientelari. Ecco perché gli amministratori locali sono così importanti: sono loro quelli che possono distribuire immediatamente lavoro. È nel sottobosco che si decidono le partite vere, che si fanno largo i politici disinvolti, quelli che risolvono i problemi spinosi, permettendo a chi siede in Parlamento di evitare di sporcarsi. E qui si arriva al voto di scambio mafioso che segue però logiche diverse. Le organizzazioni, nel corso degli anni, hanno cambiato profondamente il meccanismo dello scambio elettorale. Il voto mafioso degli anni ’70 e ’80 era in chiave manifestamente anticomunista, tendeva a considerare il Pci come un rischio per l’attenzione che dava al contrasto alle mafie sul piano locale, ma soprattutto perché toglieva voti al partito di riferimento, che è a lungo stato la Dc. Lo scopo era cercare di convogliare la maggior parte dei voti sulla Democrazia cristiana, voti che il partito avrebbe ottenuto ugualmente – è importante sottolinearlo – ma il ruolo delle organizzazioni era fondamentale per il voto individuale. Diventavano dei mediatori imprescindibili. Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, boss della Nuova Famiglia, raccontano di come negli anni ’90 non c’era politico che non andasse da loro a chiedere sostegno perché quel determinato candidato potesse ottenere una quantità enorme di voti. La camorra anticipava i soldi della costosa campagna elettorale per manifesti, per acquistare elettori, soldi che il partito al candidato non dava. In cambio i clan sarebbero stato ripagati in appalti.
Mister 100 MILA VOTI
La storia di Alfredo Vito “Mister centomila voti”, impiegato doroteo dell’Enel che prende negli anni ’90 più voti di ministri come Cirino Pomicino e Scotti, applica una teoria che fa scuola al suo successo. “Do una mano a chi la chiede”: ecco la sintesi della logica che condiziona la campagna elettorale. I veri mattatori delle elezioni non erano – e non sono – quasi mai nomi conosciuti sul piano nazionale, ma leader indiscussi sul piano locale. Questo dà esattamente la cifra di cosa poteva accadere, della capacità che le organizzazioni avevano di poter convogliare su un determinato candidato enormi quantità di voti. E non è la legge elettorale in sé a poter ostacolare gli esiti nefasti del voto di scambio, che è frutto evidentemente di arretratezza economica e quindi culturale. La dimostrazione di questa sostanziale ininfluenza è data dal fatto che, se da un lato la selezione operata dai partiti non consente al cittadino di poter scegliere i propri rappresentanti, favorendo viceversa il “riconoscimento di un premio” per chi si è sobbarcato il gioco sporco dello scambio elettorale a livello locale, dall’altro, la scelta diretta del candidato – in un sistema che rifugge la trasparenza quasi si trattasse di indiscrezione – trasforma la competizione elettorale in una mera questione di budget, nella quale la capacità di acquisto dei voti diviene determinante.
Oggi, la maggior parte delle organizzazioni criminali sostengono anche candidati non utili ai loro affari, semplici candidati che hanno difficoltà a essere eletti. Vendono un servizio. Vai da loro, paghi e mettono a tua disposizioni un certo numero di voti (emblematico il caso di Domenico Zambetti, che avrebbe pagato 200 mila euro per ottenere 4 mila voti alle elezioni del 2010). Questo significa che puoi anche non essere eletto le organizzazioni ti garantiscono solo un pacchetto di voti non tutto il loro impegno elettorale di cui sarebbero capaci. In alcuni casi candidano direttamente dei loro uomini in questo caso in cambio avranno accesso alle informazioni sugli appalti, avranno capacità di condizionare piani regolatori, spostare finanziamenti in settori a loro sensibili, far aprire cantieri, entrare nel circuito dei rifuti dalla raccolta alle bonifiche delle terre contaminate (da loro).
Con un pacco da cento di smartphone si ottengono 200 voti in genere. Quello della persona a cui va lo smartphone e quello di fidanzati o familiare.
Spese pagate ai supermercati per un due settimane/un mese. Sconti sulla benzina (fatti soprattutto dalle pompe di benzina bianche). Bollette luce, gas, telefono pagate. Ricariche telefonini. Migliaia di voti saranno raccolti con uno scambio di questo tipo.
Difficilissimo da dimostrare siccome chi promette è raramente in contatto con il politico. Quindi anche se il mediatore è scoperto questi dirà che era sua iniziativa personale per meglio comparire agli occhi del politico aiutato escludendolo quindi da ogni responsabilità nel voto di scambio. Nel periodo delle elezioni regionali 2010, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli ha aperto un’indagine sulla compravendita di voti. In Campania i prezzi oscillerebbero da 20 a 50 euro, 25 subito e 25 al saldo, cioè dopo il voto. In alcuni casi i voti vengono venduti a pacchetti di mille. Praticamente c’è una specie di organizzatore che promette al politico 1000 voti in cambio di 20.000 o 50.000 euro. Questa persona poi ripartisce i soldi tra le persone che vanno a votare: pensionati, giovani disoccupati. In Campania un seggio in Regione può arrivare a costare fino a 60.000 euro. In Calabria te la cavi con 15.000. Con 1000 euro in genere un capo-palazzo campano procura 50 voti. Il capo-palazzo è un personaggio non criminale che riesce a convincere le persone che solitamente non vanno a votare a votare per un tal politico. E come prova del voto dato bisogna mostrare la foto della scheda fatta col telefonino. In Puglia un voto può arrivare a valere 50 euro, lo stesso prezzo a cui può arrivare anche in Sicilia. A Gela proposto pacchetti di 500 voti a 400 euro. 400 euro per 500 voti: 80 centesimi a voto!
IL MECCANISMO PRINCIPE
E poi c’è il il meccanismo principe con cui si controllano i voti e si paga ogni singolo voto lo si ottiene con il metodo della “scheda ballerina”. L’elettore che vuole vendere il proprio voto va dal personaggio che paga i voti riceve la scheda elettorale già compilata (regolare fatta uscire dal seggio) se la mette in tasca poi va al seggio, presenta il proprio documento di riconoscimento e riceve la scheda regolare. In cabina sostituisce la scheda data già compilata con la scheda che ha ricevuto al seggio, che si mette in tasca. Esce dalla cabina elettorale e vota al seggio la scheda precompilata. Poi va via. Torna dà la scheda non votata e riceve i soldi. La scheda non votata e consegnata viene compilata, votata, e data all’elettore successivo, che la prende e torna con una pulita. E avrà il suo obolo. 50 euro, 100 euro, 150 o un cellulare. O una piccola assunzione se è fortunato. Così si controlla il voto. Nessuno ha parlato di questo meccanismo, la scheda ballerina non ha interessato il dibattito elettorale. Eppure è più determinante di una tassa, più incisiva di una riforma promessa, più necessaria di una manovra economica.
In questa campagna elettorale, come in tutte le precedenti, non si è fatto alcun riferimento al voto di scambio sia come “acceleratore di diritti” sia quello criminale. Avrebbero dovuto esserci spot continui, articoli diffusi, che sensibilizzassero gli elettori a non vendere il proprio voto, a non cedere alle promesse di scambio. Si sarebbero dovuti sensibilizzare gli elettori a non decidere gli ultimi giorni di voto in cambio di qualche favore. Ma se non lo si è fatto significa che in gioco ci sono interessi enormi che andrebbero analizzati caso per caso. Nel 2010 provocando da queste queste stesse pagine invocammo l’OSCE (l’organizzazione per la sicurezza in Europa, ndr) a controllo del voto regionale mostrando come il voto di scambio fosse tritolo sotto la democrazia. L’OSCE non recepì l’appello come una provocazione ma come un serio allarme e rispose di essere disponibile ad intervenire e controllare il voto. Ma doveva essere invitata a farlo dal governo. Cosa che non fu fatta.
Con queste premesse, chi può dire cosa accadrà tra qualche giorno? Il monitoraggio sarà come sempre blando, affidato a singole persone o a gruppi isolati che denunceranno irregolarità. Ma dove nessuno vorrà farsi garante di trasparenza, chi verrà a dirci come si saranno svolte le elezioni? E ad oggi nessuno schieramento ha affrontato il tema del voto di scambio. Terribile nemico o fenomenale alleato?
February 4, 2013
Ora Cosentino dica ciò che sa
«Berlusconi l’ha sacrificato non perché più impresentabile degli altri, ma solo perché più noto. Ora potrebbe parlare: e io qui gli lancio un appello perché ritrovi la dignità e lo faccia» . Di Roberto Saviano.

Nicola Cosentino
Nicola Cosentino viene sacrificato da Berlusconi a vantaggio di altri impresentabili perché è il più noto. Ma non solo per questo. Nicola Cosentino è forse il più potente. E’ la persona che sa di più e che economicamente mantiene un rapporto di indipendenza rispetto a Berlusconi e ai suoi uomini. E’ lui a mettere a disposizione del Pdl le sue risorse e non viceversa. Cioè non è il Pdl, come avviene per la maggior parte dei candidati, a mettere a disposizione della campagna elettorale di Cosentino le risorse del partito. Di Cosentino si ha paura. Ecco perché lo si allontana, non certo perché è in atto un repulisti. Lo si allontana, lo si delegittima al fine di renderlo più fragile nei rapporti di potere politici. Come dire, se domani Cosentino ci attacca, o peggio, se ci ricatta, mediaticamente è facile fornire una giustificazione: il Pdl l’ha allontanato e lui trova vendetta. Ebbene, questo è il momento in cui bisognerebbe chiedere a Cosentino di prendere una decisione importante. Questo è il momento in cui bisognerebbe chiedergli di parlare. E dire tutto ciò che sa – moltissimo – su come è stato amministrato il potere politico in Campania e non solo. Sulle vicende berlusconiane legate al ciclo dei rifiuti. Perché il potere di Cosentino è legato anche alla capacità che ha avuto di influire su sindaci e consiglieri comunali, per aprire discariche e tamponare le emergenze rifiuti che hanno angosciato il governo Berlusconi.
NICOLA COSENTINO ORA PUÒ parlare e il mio invito è che lo faccia. Cosa ha da perdere? Sa benissimo che sarà progressivamente abbandonato dal Pdl. Sa benissimo che nessuno lo sosterrà più. Sa benissimo ormai che le dichiarazioni di amicizia di Berlusconi valgono zero. Cosentino può e deve parlare. Non si tratta di delazione, né di vendetta, come fa comodo che sembri. Si tratta dell’analisi di un percorso. E sulla vicenda camorra lui collabori con la giustizia, indipendentemente da quale sia la sua posizione. Decida di raccontare cosa ha significato essere un politico in terra di camorra. Racconti come mai, nonostante tante parole, non ha mai contrastato i poteri criminali attraverso azioni politiche importanti. Lui che ha occupato ruoli di primo piano; lui che ha avuto un peso politico enorme. E che racconti cosa abbia significato, per l’uomo politico Cosentino, essere legato da vincoli di parentela alla famiglia di Francesco Schiavone “Sandokan”. Cosa abbia significato essere legato da vincoli di parentela alla famiglia di Giuseppe Russo detto “Peppe il Padrino”.
COSA HA DA PERDERE? Il mondo berlusconiano è fatto così, oserei dire il mondo intero è fatto così. Sorrisi, abbracci e strette di mano quando servi, calci quando non servi più. Vecchio adagio, forse un po’ cinico, ma da quando frequento il mondo giornalistico-editoriale-televisivo, non ho mai pensato che i rapporti che si stringono possano andare oltre il meccanismo di potere e convenienza. Cosentino è un uomo scaltro, è un uomo che non vive di infingimenti e mistificazioni. Cosentino sa che i sentimenti valgono zero, che l’amicizia è sinonimo di contratto, che le cene e i sorrisi servono a raggiungere degli obiettivi e che nemmeno in casa propria, se si cade, si viene rispettati. Nemmeno in casa propria, se si cade, ti viene tesa una mano. Cosentino sa tutto questo perché ce lo insegna la nostra terra sin da bambini: ci insegna a saper stare al mondo. E’ ora che, per riacquistare una dignità che ha chiaramente perduto, parli. E’ ora che racconti, saremo in molti disposti a raccogliere le sue testimonianze e le sue analisi. E’ ora che dica tutto ciò che sa e rompa con “scandalo” le regole del gioco. Se non lo farà, a tutti rimarrà il sospetto – certo, solo il sospetto – che il suo silenzio e il carcere che molto probabilmente vivrà, Berlusconi avrà saputo ripagarli. Magari aprendogli il mercato del cemento nel nord Italia; magari aprendogli la distribuzione di carburanti, che lui già ha nel Sud, anche al Nord. Certo, allo stato, restano illazioni e sospetti. Ma solo Nicola Cosentino ha il potere di fugare il pensiero che per una mancia abbia scambiato la sua libertà.
January 28, 2013
La lezione di Walter il pastore.
Un uomo anziano, di montagna, malato di reni. E che quando arriva il suo turno per il trapianto, rinuncia. Per salvare una persona più giovane. Un gesto d’amore vero per la vita. Di Roberto Saviano.

Walter Bevilacqua
Trovo questa notizia sui giornali data come una delle notizie dell’Italia minore: dopo la politica, dopo gli esteri, dopo gli editoriali e i dibattiti. In realtà mi rendo conto che è la notizia più importante del giorno. Eppure non è stata data come tale. E’ la storia di Walter Bevilacqua, un pastore. So poco di lui se non quel che raccontano le sue sorelle e che qualche cronista ha riportato. C’è la sua foto: un po’ apostolico, barba lunga, stempiato, sguardo malinconico. Sembra un soggetto di de Ribera, lo Spagnoletto.
Walter Bevilacqua era un pastore in Val d’Ossola che ha vissuto tutta la sua vita allevando animali con i suoi cicli: l’alba, la notte, la primavera, l’inverno a decretare le logiche con cui vivere. Si ammala ai reni e inizia un calvario di dialisi, ma continua a lavorare. La sua unica salvezza è un trapianto perché le cose vanno sempre peggio. E un giorno arriva questa possibilità: arrivano i reni per lui. Ma quello che fa quest’uomo è rinunciarvi. Rinuncia ai reni perché non ha famiglia. Ha 68 anni e non ha figli. Vuole lasciarli a persone che hanno bambini, che hanno una famiglia, che sono più giovani.
BEVILACQUA SCEGLIE LA VITA e la morte per sé. E lo fa con la scelta di chi conosce le regole della natura, di chi ha visto queste regole: gli agnelli che nascono, il vecchio montone che si fa da parte quando non può dare più vita. Regole spietate e chiare della natura, che però lui affronta con coraggio poetico: quello della rinuncia, che forse la natura non conosce come scelta ma solo come istinto, dovere. Lui invece quella rinuncia la sceglie. In queste ore di dibattito elettorale sulla famiglia, Walter Bevilacqua è un uomo che con il suo gesto ha dato la definizione che più mi piace di famiglia. In realtà non ha pronunciato nessuna parola in tal senso. Ha solo agito e la sua azione non avrebbe fatto notizia se non l’avesse data il parroco del suo paese.
Walter ha dato la migliore definizione di famiglia perché si è fatto da parte perché la vita continuasse: per la vita, per far vivere meglio chi costruisce vita. Questa è la definizione di famiglia che forse più mi piace. Uomo-donna, donna-donna, uomo-uomo, single con figli, risposati, famiglie allargate: gruppo di persone che allevano la vita. Senza una codificazione precisa.
IL SUO GESTO l’ho voluto leggere così: mentre tutti cercano di codificare il bene per il bambino, il bene per la famiglia, c’è stato un pastore che si è fatto da parte senza neanche sapere a chi andassero i reni che erano per lui. Si è fatto da parte e basta in nome della vita. Non la sua quella di bambini che non conosce e non vedrà e che non sapranno mai chi ha permesso al loro padre o alla loro madre di vivere.
Quando la scelta individuale diventa coraggio per chi osserva questo coraggio; diventa motivo di comprensione. Io ho compreso attraverso la morte di quest’uomo, che rinuncia al trapianto pur sapendo di morire, quanto si possa amare l’esistenza del vivere al punto tale di riconoscere la propria vita già abbastanza, già con un cammino importante fatto. Un ragionamento coraggioso e profondo come solo un pastore poteva fare. Walter Bevilacqua mi ha insegnato qualcosa che ancora non avevo conosciuto e che forse ancora non ho compreso sino in fondo.
January 22, 2013
Lasciate che i gay adottino bambini.
Il no della Chiesa sulle adozioni da parte delle coppie omo dovrebbe riguardare solo i cattolici. E invece condiziona le leggi e le istituzioni dei paesi laici. Questo è profondamente ingiusto. Perché i partiti lo accettano?
La Francia, pur avendo una destra profondamente reazionaria, ci ha abituati a veder raccontate le sue manifestazioni come momenti di crescita e libertà. Aver invece assistito a migliaia di persone manifestare contro i matrimoni e le adozioni delle coppie gay, colpisce, e molto. Il concetto di famiglia è un concetto storico, niente affatto biologico. A osservare la famiglia africana, quella asiatica, mediterranea, cattolica, musulmana ci si accorge che sono tutte declinazioni diverse – spesso diversissime – di uno stesso concetto che presuppone la condivisione da parte di due o più persone di spazi, risorse, affetti. Ma qualunque sia la nostra idea di famiglia, dovremmo interrogarci su questo: preferiamo davvero che ci siano bambini che vivano in situazioni di abbandono o in strutture di accoglienza piuttosto che dare possibilità a nuove forme di famiglia? Il progetto non è far adottare bambini indiscriminatamente a persone che non posseggano i requisiti per farlo. Non è abbassare il livello di guardia sugli affidamenti.
SI TRATTA DI POTER PENSARE a nuclei diversi. L’uomo e la donna sono oggi percepiti come basi fondamentali su cui costruire un nucleo familiare, ma quante famiglie vivono situazioni di conflittualità tali da non consentire una vita serena all’interno delle mura domestiche? E’ raro trovare coppie stabili. Spesso ci si separa e si cresce in famiglie allargate. Non esiste un percorso di sanità e un percorso tossico. Esiste l’essere cresciuti bene o male. La famiglia, qualunque sia la sua composizione, è un laboratorio. Oggi le famiglie allargate sono un dato di fatto, ma solo qualche anno fa sembravano un’aberrazione. Sono convinto che le coppie gay e i single che chiedono di poter adottare, dovrebbero avere il diritto di farlo perché la loro è una richiesta in nome dell’amore. E il dibattito non dovrebbe essere se permetterlo o meno, ma stabilire i criteri che consentano di capire, agli addetti ai lavori, se il nucleo familiare in fieri è in grado di poter accogliere bambini oppure no. Ci sono in Italia decine di migliaia di bambini in attesa di essere affidati a nuclei familiari e le adozioni, anche per le coppie etero, spesso seguono iter lunghi e complicati. L’obiettivo dovrebbe essere snellire le pratiche e permettere che nuove famiglie possano nascere.
Le posizioni della Chiesa cattolica sono legittime, ma legittime riguardo ai cattolici. La Chiesa ha il diritto di ricordare a chi segue i suoi principi che lei è contraria a qualsiasi forma di famiglia diversa da quella formata da un uomo e una donna e al di fuori del matrimonio. Ma non ha alcun diritto di condizionare le leggi e le istituzioni dei paesi laici. I cattolici possono dire la loro, ma non influenzare o boicottare nuove leggi. Questo è profondamente ingiusto. Che dimostrazione di libertà e autonomia da parte dei partiti sarebbe se il dibattito elettorale potesse aprirsi e discutere di questi temi. Ma si ha troppa paura che il mondo cattolico, così determinante nelle elezioni, possa boicottare la parte che ha messo in tavola discussioni poco digeribili. Eppure, se la politica si tiene lontana da determinati temi, se getta la spugna e non affronta la possibilità di creare felicità, realizzazione, trasformazione culturale, che cosa si riduce a essere? Tasse? Appalti controllati?
COME PER LA BATTAGLIA sull’aborto. Si preferiva ignorare che impedendo una legge, morivano migliaia di donne in clandestinità. Ancor prima di discutere se manifestare o meno contro l’adozione per le famiglie omosessuali, ciò che lascia sgomenti è che molte persone credono che un bambino possa essere più felice senza una famiglia, a vivere in istituti di accoglienza, piuttosto che avere due mamme o due papà che possano volergli bene e dedicare le loro vite a lui. Preferiscono che un bambino viva in strutture e condivida l’affetto dei tanti professionisti che vi lavorano con altri bambini senza famiglia, piuttosto che a quel bambino sia dato tutto l’amore di una famiglia sua, un amore che loro considerano “diverso”. Messa così, questa, è davvero la peggiore delle cattiverie.
January 18, 2013
Se Berlusconi restasse senza platea.

Roberto Saviano
LA COSA sorprendente di questa campagna elettorale è che l’ex primo ministro, lo stesso che ha avuto a disposizione decenni di comunicazione televisiva e giornalistica, oggi torna a pretendere e ottenere un pulpito. E da esso conquisti anche larga audience. Accade poi che, grazie a quel pulpito, sembra guadagnare come decorazioni al merito, un’immagine nuova, diversa, svecchiata. Quella che doveva apparire come la più logora e stantia delle proposte politiche, d’improvviso sembra diventare, per un trucco mediatico, il nuovo che attrae. Lo si segue in televisione, si cliccano i video delle sue interviste, si resta lì, incollati allo schermo, ipnotizzati, invece di cambiare canale, per decenza.
Ci dovrebbe essere un unanime “ancora lui, basta” e invece no. E ciò che tutti un anno fa credevamo sarebbe stata l’unica reazione possibile alla incredibile ricomparsa sulla scena politica di Silvio Berlusconi non si sta verificando. Una certa indignazione – naturalmente – talvolta una presa di distanza, ma non rifiuto, non rigetto.
Quando Berlusconi va in tv sa esattamente cosa fare: la verità è l’ultimo dei suoi problemi, il giudizio sui suoi governi, il disastro economico, le leggi ad personam, i fatti – insomma – possono essere tranquillamente aggirati anche grazie all’inconsapevolezza dei suoi interlocutori. Il Cavaliere mette su sipari, sceneggiate, battutine. È smaliziato, non ha paura di dire fesserie,
non ha paura di essere insultato, di cadere in luoghi comuni, di ripetere storielle false sulle quali è già stato smascherato. Occupa la scena. E c’è chi cade nel tranello: questo trucco da prim’attore, incredibilmente, ancora una volta crea una sorta di strana empatia, di immedesimazione. C’è chi dice: sarà anche un buffone, ma meglio lui dei sedicenti buoni.
E allora sedie spolverate, segni delle manette, lavagnette in testa. Torna lui, lui che ci ha ridotti sul lastrico, lui che ha candidato chiunque, lui che ha detto tutto e il contrario di tutto ed è stato smentito mille volte. Eppure quei pulpiti diventano per lui nuove possibilità di partenza: chi vuole ostacolare questo processo già visto e già vissuto dovrebbe evitare di fare il suo gioco, di prestarsi al ruolo di spalla – come al teatro – dovrebbe impedirgli di montare e smontare sipari.
Più Berlusconi va in tv, più dileggia chi gli sta di fronte, più piace. Perché sa disinnescare chi lo intervista. Non ha paura, anzi sembra divertito dalla paura degli altri. Sente l’odore del sangue dei suoi avversari e attacca. In una competizione in genere vince chi non ha nulla da perdere e lui, screditato sul piano nazionale, internazionale, politico e personale; con processi pendenti che riguardano le sue aziende e le sue abitudini privatissime; con l’impero economico che cola a picco, è l’unico vero soggetto che da questa situazione non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. E se la sta giocando fino in fondo. Appunto, giocando. È divertito, esaltato.
Berlusconi non può più essere considerato un interlocutore, chi lo fa gli dà la possibilità di mentire laddove i fatti lo hanno già condannato. Fatti politici, ancor prima che giudiziari. Più lo si fa parlare, più lo si aiuta, più si asseconda la sua pretesa alla presenza perenne, all’onnipresenza televisiva come fosse un diritto da garantire a un candidato, cosa che non è. E tutto come se prima di questo momento non avesse mai avuto la possibilità di farci conoscere le sue idee e i suoi programmi. Come se non avesse avuto modo di esprimersi, da primo ministro, sui temi che oggi sta affrontando spacciandosi da outsider, da nuovo che avanza, da nuovo che sgomita e lotta per riconquistare lo spazio che gli è dovuto. Ha avuto una maggioranza che gli avrebbe consentito di poter modificare le leve e cambiare tutto. E non lo ha fatto. Ha solo legittimato quel “liberi tutti” fatto di evasione e deresponsabilizzazione che ha reso il nostro paese un paese povero. Povero di infrastrutture, povero di risorse, povero di speranza e invivibile per la maggior parte degli italiani. Anche per chi Berlusconi lo ha votato, anche per chi in lui si è riconosciuto.
E allora smettiamola di prenderlo sul serio, smettiamola di ridere alle sue battute per tremare poi all’idea che possa riconquistare terreno. Trattiamolo piuttosto per quello che è: un bambino di settantasei anni. Quando i bambini esagerano con le parolacce, con i capricci, i genitori li ignorano, fingono di non aver sentito. È l’unico modo perché il bambino perda il gusto della provocazione. La stessa cosa dovremmo fare con lui: farlo parlare, ma senza prestargli attenzione. Evitiamo i sorrisi alle sue battute stantie, perché non possa più ostentare sicurezza davanti ai suoi, perché non possa più spacciare la falsa tesi secondo cui i politici sono tutti uguali. Non sarò mai per la censura: Berlusconi ovviamente deve parlare in tv – certo dovrebbe farlo nelle regole sempre infrante della par condicio – come tutti i leader delle coalizioni. Siamo noi che dobbiamo smetterla di giocare con lui. Lasciamolo senza platea.
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