Roberto Saviano's Blog, page 27
May 21, 2015
Andrea Giuliano: “Non accetto una società che mi critica per chi sono”
“Stanco e amareggiato”. Sono le prime parole di Andrea Giuliano raggiunto via telefono nella sua casa a Budapest.
È un nuovo stato d’animo per il trentatreenne gay di origine ligure, che dal luglio dell’anno scorso riceve minacce da estremisti ungheresi neo-nazisti, ma non ha mai smesso di credere nel suo impegno di attivista. Il cambio di umore è dovuto alla notizia appena ricevuta dal suo avvocato. “Ho saputo che la polizia ha ammesso di non avere assolutamente lavorato sul mio caso da quando è stato riaperto a dicembre. Non hanno voglia di occuparsene. Hanno detto che non hanno tempo. Non si sono nemmeno sentiti in dovere di scusarsi”.
Il 5 luglio 2014 durante il Gay Pride, Andrea Giuliano aveva sfilato con un cartello che faceva la parodia alla bandiera di un gruppo ultranazionalista, i «Motociclisti dal sentimento nazionale». Al posto della stilizzazione di una moto, quella di un fallo. Il leader del gruppo, Sandor Jeszenszky, ex militante di Jobbik, il partito neonazista che alle ultime elezioni ha raccolto il 20% di preferenze, ha denunciato Giuliano per diffamazione. Lo stesso che sul suo sito ha messo una taglia di 10 mila dollari per la morte di Andrea Giuliano, che dall’anno scorso riceve minacce, è pedinato, vive un’altra quotidianità, fatta di un’allerta continua.
Il processo contro di te sta andando avanti?
“Sì, quello procede, la prossima udienza è a giugno. Mi avevano notificato un atto di comparizione nella mia vecchia casa. Dopo l’udienza mi hanno telefonato per chiedermi perchè non mi ero presentato. Mi sono chiesto come mai mi telefonassero. Li ho messi in contatto con il mio avvocato, Szabolcs Miklós Sánta, ma tutta la comunicazione è stata enigmatica. Solo nell’udienza dello scorso 8 marzo ho capito che ero io l’accusato. Io avrei offeso un’organizzazione antisemita, omofoba e xenofoba che organizza manifestazioni dal nome “Dai gas” passando davanti alla sinagoga”.
Hai ricevuto ancora minacce?
“In Italia alcuni giornali hanno riportato cose scorrette, non mi piace il sensazionalismo. Non è vero che ho dovuto cambiare casa decine di volte e non vengo seguito ogni giorno e minacciato giornalmente, ma di traslochi ne ho fatti comunque tanti, e le minacce, seppur a ritmo molto più lento dell’ estate scorsa, continuano. Adesso che il caso è stato menzionato in Parlamento Europeo “magicamente” c’è silenzio. E’ già uno schifo così, mi sembra che basti ad indignarsi, non serve esagerare”.
“Negli ultimi anni il mio attivismo si è manifestato più con iniziative che con parole. Non solo per la difesa della comunità lgbt. sono uno dei pochi che nel 2012 ha dormito in un quartiere a prevalenza Rom nel periodo in cui si erano accentuati gli attacchi da parte degli stessi gruppi che oggi minacciano me. Oppure, con altre persone, ho dormito in tenda in piazza, per dimostrare contro la legge che criminalizza i senza tetto e prevede l’arresto di chi viene trovato due volte a dormire all’aperto nello stesso posto”
Ti hanno accusato di offendere i cristiani. Tu sei cristiano?
“Mi ritengo agnostico. Non ho offeso la cristianità, ho criticato le posizioni della Chiesa cattolica, venendo da un paese cattolico per eccellenza e vivendo in un paese a maggioranza cattolica. Capisco che l’offesa non è definita da chi pronuncia una determinata frase, ma da chi la riceve. Ma anche il mio ufficio ha ricevuto decine, forse centinaia, di email da ultra cattolici che chiedevano il mio licenziamento”.
Su Twitter c’è chi ha scritto che gli ungheresi non ce l’hanno con i gay, ce l’hanno con i provocatori. Ti senti un provocatore?
“Io non mi sento un provocatore, mi sento una persona che si avvale del proprio diritto di esprimere la propria opinione e criticare qualcuno per degli atti che ritengo sbagliati.
L’Ungheria per quanto mi riguarda per esperienza personale è un paese passivo, che ha paura di tutto. Il divario sociale sta diventando insopportabile ed è un paese in cui le persone hanno paura di alzare la voce contro qualcosa che non piace. La provocazione è l’anima dell’attivismo. Se non ci fosse stata Rosa Parks a rifiutarsi di cedere il suo posto in un autobus, non staremmo a parlare di diritti civili, se qualcuno non avesse preso la Bastiglia non saremmo qua a parlare di uguaglianza, di libertà di opinione, non sapremmo nemmeno cosa vuol dire difendere una propria opinione”.
Hai ricevuto solidarietà in Ungheria?
“Mi sento molto rappresentato da TASZ (Társaság a Szabadságjogokért, Unione Ungherese per le Libertà Civili, ndr) un’organizzazione non governativa che si prende cura di difendere i diritti fondamentali. Loro fanno davvero molto. Ma sono anche stato criticato dal mio stesso gruppo”
Per che cosa?
“Mi accusano di aver rovinato l’immagine del Pride. Mi dicono che devo partecipare al Pride con amore. Ma come si fa ad andare con amore se siamo circondati da cordoni di poliziotti e da gente che ti tira sassi, insulta, inneggia al nazismo? Scusa l’espressione, ma io devo andare lì “a dito medio alzato”, a far sentire la mia voce. Non è accettabile una società in cui A può offendere B, ma B non può ribattere”.
Hai paura?
“La faccia ormai l’ho già messa. Quando imbocchi una strada per difendere un diritto questa diventa una priorità, non importa se hai paura. Non accetto di vivere in una società dove sono criticato per chi sono”
Andrai al Gay Pride l’11 luglio a Budapest?
“Ci andrò vestito da stadio, per protestare contro gli investimenti che il premier Orbán vuole fare per la costruzione dello stadio di Felcsút, simbolo dell’ arroganza e delle scelte arbitrarie di Orbán”.
Redazione – Silvia Savi
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May 20, 2015
Dirty soccer, il calcio malato che piace sempre più alle mafie.
La nuova inchiesta sul calcio scommesse fa riemergere i legami tra criminalità organizzata e mondo calcistico. A riprova che le infiltrazioni ormai sono un vero e proprio sistema.
“Il calcio italiano si configura sempre più come uno spazio di riciclaggio e di investimento per le mafie nazionali e internazionali. Le mafie sanno che i tifosi non abbandoneranno mai il loro tifo. Quindi l’economia delle partite truccate può essere un affare infinito”.
Lo scriveva Roberto Saviano alla fine del 2011 quando Interpol e investigatori italiani scoperchiarono un giro di scommesse via Internet sulle partite truccate del campionato tricolore e di alcuni campionati africani ed europei, che metteva in connessione la mafia di Singapore con la camorra.
Oggi ci risiamo, con 50 arresti tra dirigenti, calciatori, allenatori e imprenditori, implicati nella gestione di partite truccate in serie D e Lega Pro. Gli intrecci finanziari di questo nuovo scandalo del “calcioscommesse” arrivano fino in Kazakistan, Cina, Russia, Serbia, Malta. Su tutti il cappello della ‘ndrangheta le cui ramificazioni “hanno assunto un livello esorbitante non solo nei settori classici in cui operano le cosche ma anche nel mondo dello sport”.
Queste ultime parole sono di Renato Cortese, direttore dello SCO (Servizio Centrale Operativo della Polizia), il braccio dell’inchiesta “Dirty soccer” coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro.
Uno scandalo che non è più tale, dal momento che da tempo il calcio è entrato a pieno titolo tra le principali attività di business delle mafie nazionali e internazionali. Un affare che ha due obiettivi: il guadagno facile e il riciclaggio di denaro proveniente da altre attività criminali. Un intreccio esplosivo che si ancora su un fondale sicuro fatto di denaro, facili ambizioni e spregiudicatezza.
Lo scrive anche il procuratore Vincenzo Lombardo nel decreto di fermo, in cui parla del calcio come di un mondo malato, che si avvale della fragilità dei giovani giocatori e che ormai utilizza i metodi intimidatori della criminalità organizzata, compresi sequestri di persona e pestaggi.
Non si tratta più quindi di infiltrazioni mafiose nel settore calcistico, ma di un vero e proprio controllo organizzato della filiera del calcio scommesse da parte della criminalità organizzata, su cui rischia di innescarsi un’altra guerra tra cosche per il controllo degli affari che, a quanto pare dalle indagini ancora in corso, dovevano estendersi fino alla serie B.
La magistratura e le forze dell’ordine non possono essere lasciate sole. Ancora una volta le risposte devono arrivare dai vertici, la richiesta di trasparenza deve essere imposta dalla politica. Le mafie e i loro nuovi mercati devono tornare in cima all’elenco delle priorità.
Redazione – Si.S.
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Sei negra e non meriti di diventare avvocato. A scuola gli insulti di chi non ha ambizione.
La vicenda della ragazza senegalese, disprezzata con lettere anonime dei compagni di scuola, esige la presa di posizione di chi non vuole confondersi con i razzisti.
Non avrei mai voluto leggere questa storia. Frutto di codardia, di ignoranza, di incapacità di costruire il futuro. La vicenda della ragazzina senegalese che a Pisa è stata insultata dai compagni con le parole “Sei negra e non meriti 10 in diritto. Sei bella ma sei nata sporca” ci impone di alzare l’allerta, perché troppe sono le storture.
“Aida”, come l’hanno chiamata le cronache con un nome di fantasia, è una studentessa modello ed ha un’ambizione: fare l’avvocato. Sulla sua ambizione, che agli occhi di alcuni suoi stolti compagni stride con il colore della sua pelle, si sono accaniti gli insulti. Sono insulti anonimi, ma descrivono persone che quell’ambizione non ce l’hanno. Ragazzi che piuttosto di pensare a costruire un futuro per sé , preferiscono sprecare energie ad abbattere il futuro degli altri. I giovani in Italia sanno di avere sempre meno opportunità di poter far valere il proprio talento: ogni anno perdiamo migliaia di brillanti studenti che scelgono di migrare all’estero, quasi 100 mila nel 2014. Vogliamo continuare a compensare questa diaspora prendendocela con gli immigrati o i figli di immigrati che scelgono l’Italia per farne il proprio Paese?
Mi tornano in mente le parole dell’ex ministro Kyenge, anche lei vittima degli insulti: “L’Italia non è un paese razzista e nessuno nasce razzista. Se nessuno nasce razzista, vuol dire che razzisti lo si diventa, e lo si diventa anche per comportamenti che possono essere errati da parte di chi vuole far passare un messaggio di paura. Non dovremmo aver paura del futuro“.
E invece in Italia si continua a sfruttare la paura e a temere l’altro, quando la paura più grande deve essere la nostra verso noi stessi, incapaci di pensare una società diversa, dove tutti possono avere l’ambizione di Aida.
Sulla vicenda di Pisa pesa il contesto culturale. Qui non siamo in periferia. Siamo in una città che vive da tempo una condizione multietnica e siamo in una scuola superiore. Io respiro il disagio di quei corridoi e di quelle aule, di una città intera e di una comunità civile da cui mi attendo una netta dichiarazione di distanza. A queste parole vanno opposte le azioni, le facce della gente che non la pensa in questo modo e che può isolare il razzismo. Mi aspetto la presa di posizione della politica, la solidarietà alla famiglia di Aida e agli insegnanti che l’hanno difesa e che per primi dovranno spiegare che questa storia è soprattutto una storia di cattiva educazione, di sciatteria intellettuale.
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Mutlu Kaya, 19 anni. Un colpo alla testa per fermare un talento.
In Turchia continuano le aggressioni alle donne che cercano l’indipendenza. Bellezza e arte terrorizzano l’islamismo radicale.
Avere talento e mostrarlo può significare per una donna turca rischiare la vita. Mutlu Kaya, 19 anni, originaria della provincia sudorientale di Diyarbakir, non è solo bella, ha anche il dono della voce. Una voce che non era sfuggita alla cantante Sibel Can, nota artista folk della Turchia, che aveva convinto Mutlu a partecipare alle selezioni per lo show Cok Guzel, il seguitissimo “Got Talent” turco. Domenica sera Mutlu si stava preparando per andare in tv, quando hanno suonato alla porta di casa. Ad attenderla c’erano tre, forse quattro persone, ed un colpo di pistola che l’ha centrata alla testa. Mutlu è in fin di vita. A sparare sarebbe stato qualcuno della sua famiglia, la polizia sta indagando tra i parenti della tribù di appartenenza del padre. Mutlu aveva paura. Da marzo, dopo aver espresso il desiderio di partecipare alla trasmissione, la ragazza aveva ricevuto minacce di morte. Il fidanzato, fermato e rilasciato dopo l’aggressione, ha detto “non volevo che lei andasse in tv, ma non le ho sparato io. Io l’amo”.
Nella “Nuova Turchia” di Erdoğan, la bellezza e l’arte terrorizzano l’islamismo radicale. E il paese non è un paese per donne.
Lo scorso 14 febbraio migliaia di donne si sono riversate nelle strade di Istanbul e di Mersin, esponendo il nome di Özgecan Aslan, studentessa universitaria, uccisa brutalmente su un autobus che avrebbe dovuto portarla a casa. Sul suo corpo, bruciato e gettato in un dirupo, sono stati trovati i segni di pugni, calci, tagli alla gola e alle mani. Negli stessi giorni il corpo di un’altra donna uccisa dal marito, è stato trovato a pezzi in un cassonetto. “Non siamo in lutto, siamo in rivolta” gridavano le donne turche in piazza a febbraio. Una rivolta contro il femminicidio e per la libertà. Secondo l’Associazione per i diritti umani in Turchia, nel 2014 sono state uccise 296 donne, mentre ne sono state ferite 776 e 142 hanno denunciato violenze e stupri. Nel 47% dei casi le donne uccise chiedevano una maggiore indipendenza. Mutlu ha pagato perchè cantava in tv e si esibiva a braccia scoperte. O forse Mutlu ha pagato semplicemente perchè si esibiva. Mostrarsi felici, anche solo con una risata, può sembrare disdicevole, non solo nelle periferie turche, ma anche nelle piazze delle più grandi città. E questo a detta di una delle più alte istituzioni: la scorsa estate il vicepremier Bülent Arınç, dirigente del partito islamico Akp, disse che le donne non dovevano ridere ad alta voce in mezzo alla gente. Fu condannato dalle critiche giunte a migliaia su Twitter, con l’hashtag #kahkah (scoppiare a ridere).
Redazione – Si.S.
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May 19, 2015
Non voglio far evadere il lettore, voglio invadere la sua coscienza
“Se esistono delle violazioni l’opinione pubblica ha diritto ad esserne informata”. Questa frase l’ho sentita pronunciare accanto a me, solo quattro giorni fa, da Günter Wallraff, il giornalista tedesco che ha cambiato decine di volte la sua identità per scrivere inchieste che conducessero davvero alla rappresentazione della realtà.
È una frase che ha il peso dell’enunciazione di un diritto fondamentale. Nessuno dovrebbe essere piegato dalla tentazione di rinunciare a conoscere la verità, per vivere in una falsa bellezza.
Mi sembra questa la miglior risposta a quanti oggi, in malafede, vorrebbero confondere la critica con il disfattismo, preferendo una narrazione di comodo della realtà, invece che una rappresentazione esatta anche di ciò che non piace. Solo se si conosce si può incidere sul cambiamento e trasformare la falsa bellezza in una bellezza reale.
Io non voglio far evadere il lettore, voglio invadere la sua coscienza. Avere accanto a me, al Salone del Libro di Torino, un maestro del giornalismo d’inchiesta tedesco, mi ha permesso ancora una volta di ribadire che bisogna avere il coraggio di uscire dal proprio perimetro di valori per scontrarsi con la realtà.
Il metodo per arrivare alla verità è sempre fondato sulla compromissione. Non puoi pensare di avvicinarti ai dettagli da una dimensione di purezza. Per questo l’opera di Wallraff ha una potenza letteraria. Walraff ha scelto di vivere decine di identità diverse nella sua vita per poter creare empatia con le situazioni in cui si immergeva. E portarle alla conoscenza di tutti.
In “Faccia da Turco“, che ho letto da ragazzino, non c’è solo un giudizio sull’ingiustizia e lo sfruttamento. C’è la convinzione che bisogna mettersi in gioco perdendo anche qualcosa di proprio per aprirsi verso l’altro. Che cosa c’è dietro al ragazzo che decide di diventare camorrista, al migrante che accetta il lavoro nero? Se non so darmi una risposta, non posso impedire questi crimini.
“La mafia non esiste” è sempre stato per i mafiosi e per i collusi il miglior paradosso con cui nascondere la propria vita. Eppure tutti sanno che non è così e che della mafia si deve parlare, conoscerla profondamente se si vuole davvero avviare un cambiamento.
Quando al governo c’era Berlusconi il tema dell’antimafia era un tema abbastanza principe per dimostrare che la situazione non andava bene. Ma da un governo di “buoni” mi sarei aspettato parole nuove e non il silenzio su fenomeni come mafie, criminalità organizzata, riciclaggio, che sono spariti dalla grammatica politica di questo momento storico in Italia.
Credevo in un percorso di riforme per l’Italia e invece niente è cambiato. Antimafia e antiriciclaggio sono parole che mai sono state pronunciate, come se ci si vergognasse di accostare l’immagine dell’Italia all’immagine mafiosa. Il semestre europeo di presidenza italiana doveva essere una grandissima opportunità per chiedere finalmente all’Europa di avviare una stagione di riforme con leggi europee contro il riciclaggio. Londra e l’Austria sono i luoghi dove si ricicla di più al mondo, non le isole Cayman. E quali sono gli Stati che si oppongono a qualunque legge antiriciclaggio? L’Inghilterra e l’Austria. Nulla è stato fatto per dare impulso all’antiriciclaggio e all’antimafia.
La politica ha rinunciato a dare delle priorità. Ci sono notizie di questi giorni, come quella di un bambino messo sotto protezione perché la mafia minaccia di morte suo padre e tutta la sua stirpe maschile, o la notizia del giornalista Enzo Palmesano licenziato dal proprio giornale su richiesta di un boss camorrista, che non hanno avuto alcun commento né da parte di ministri del governo, né di rappresentanti dell’opposizione.
Allora diventa fondamentale la responsabilità del lettore. Voi lettori avete il potere di scegliere con il vostro click cosa leggere e cosa approfondire, quali sono le priorità e chiederne conto, pressare la politica, premiare la stampa che ne parla. Per capire, per cambiare.
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May 15, 2015
Vita in carcere, il difficile percorso verso una seconda possibilità
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
In diciannove parole il terzo comma dell’art. 27 della nostra Costituzione indica la via per affermare due valori primari: la dignità e il riscatto. Chi viene condannato ad una pena detentiva deve poter vivere umanamente la sua pena ed avere una seconda possibilità. Lo deve a se stesso, lo deve alla società.
Ma negli istituti penitenziari italiani le condizioni di vita non sempre agevolano questi percorsi; dignità e riscatto hanno la rapida dissolvenza della luce del sole dietro le sbarre.
Il prossimo 19 maggio dal carcere di Bollate saranno inaugurati gli “Stati generali dell’esecuzione penale“, un semestre dedicato ai temi della detenzione, promosso dal Ministero della Giustizia per giungere ad una riforma della vita carceraria in Italia.
L’esigenza di un intervento riformatore al sistema carcerario italiano era emersa pubblicamente all’inizio del 2013, quando il nostro Paese incassò una durissima condanna dalla Corte europea dei diritti umani per violazione dei diritti dei detenuti. Meno di 3 metri quadrati a disposizione per vivere in cella: un trattamento riconosciuto inumano e degradante per sette carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e di Piacenza che avevano ricorso al tribunale di Strasburgo. Per il nostro Paese una condanna a pagare 100 mila euro di risarcimento per danni morali. Oltre ad un ultimatum: un anno di tempo per rimediare alla situazione carceraria ed in particolare al sovraffollamento.
Alla fine del 2013, i detenuti nelle carceri italiane erano 62.536. I carcerati al 28 febbraio 2015 erano 53.982. Ancora troppi rispetto ai posti letto regolari che sono 49.943. Significa che in Italia ci sono 108 detenuti ogni 100 posti letto, ma il rapporto sale a 118 se si tiene conto dei reparti chiusi per manutenzione.
La fotografia puntuale emerge dall’XI Rapporto sulle condizioni detentive in Italia, redatto dall’associazione Antigone, che dal 1998 è autorizzata ad entrare, visitare e raccogliere dati, foto e video negli oltre 200 istituti di pena italiani.
La sentenza della Corte europea ha costretto l’Italia ad accelerare il passo: gli stranieri non vanno più in carcere per violazione dell’obbligo di espulsione del Questore, ci sono nuove norme in materia di arresto e custodia cautelare. Si va meno in galera per violazione delle norme sulle droghe. In quattro anni ci sono state 9.253 imputazioni in meno per motivi di droga, dopo l’abrogazione da parte della Corte Costituzionale della legge Fini-Giovanardi.
L’equazione-slogan “carceri piene, strade più sicure” è saltata. A fronte infatti della diminuzione dei detenuti non c’è stato alcun aumento proporzionale del tasso di delittuosità.
Ma si può fare ancora molto. Secondo il rapporto Antigone, si potrebbero avere 10 mila detenuti in meno e un risparmio di 100 milioni di euro con la depenalizzazione delle droghe leggere, come sta accadendo negli Stati Uniti dove la legalizzazione della cannabis in Colorado e nello stato di Washington ha portato oltre 800 milioni di dollari di nuovi introiti fiscali, sono diminuiti del 4% i reati connessi ed anche il consumo è diminuito del 24%, con un taglio agli introiti per le mafie del narco-traffico.
A questi temi si affianca quello ancor più complesso dei percorsi rieducativi. La possibilità di riscatto per un detenuto arriva spesso dall’opportunità di lavorare. Ma lo scorso anno sono state poco meno di 4000 le posizioni aperte per lavori di pubblica utilità grazie alle convenzioni con gli enti locali; così come alla diminuzione del numero di carcerati non è corrisposto un maggior numero di condannati in affidamento in prova ai servizi sociali, la via privilegiata per riuscire a reinserirsi nella società.
Redazione – Si.S
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Ma dai deliri di Grillo nessuno si dissocia
Una delle persone che più amo è stata operata di recente per un carcinoma mammario. Nel suo caso è stato possibile intervenire tempestivamente perché ha sempre seguito il consiglio di controllarsi, dall’autopalpazione alla mammografia. Ecco un esempio di difesa della vita. Qualche mese fa ho letto un’intervista a Umberto Veronesi: mi colpirono le sue parole. Veronesi, dopo una vita passata a fare ricerca sul cancro, a fare informazione, a educare gli italiani a non trascurarsi e ad avere rispetto per la propria vita, una vita che lui, da ateo, tiene in conto più di molti cattolici, ha detto di sentire di aver fallito, perché non è riuscito a sconfiggere il cancro, a curarlo in tutte le sue manifestazioni. Eppure io credo che non sia così. Non ha fallito, perché nel corso della sua lunga carriera di medico, ricercatore e divulgatore, ha spiegato una cosa fondamentale: che fare prevenzione è l’unica arma che abbiamo per sconfiggere certe patologie. Non perché prevenendo non ci si ammali, ma perché una diagnosi precoce permette di intervenire e salvare vite.
Tempo fa lessi un libro scritto da un medico indiano Atul Gawande, “Salvo complicazioni”, un libro che trovai estremamente interessante per la tesi di fondo: la medicina non è una scienza esatta, è fatta di studio, di osservazione, di esperienza e di fallimenti. Da questi, spesso, si impara più che dai successi. Si può riconoscere una patologia rara solo se ti capita, come medico, di averla già incontrata, magari perdendo la battaglia. Ho citato “Salvo complicazioni” perché credo che certi discorsi vadano affrontati sempre in maniera scientifica e rigorosa. Perché troppo spesso nei medici non si ha fiducia. Troppo spesso si va dal medico con preconcetti e informazioni reperite confusamente sul web, si va allarmati perché le procedure applicate al proprio caso, differiscono da quelle lette per pazienti che magari sono guariti.
In questo contesto, che è un pericoloso cocktail di paura (giustificata), di sfiducia nella sanità pubblica e nella sanità in generale, di voglia di informarsi attraverso percorsi fai-da-te, si inserisce la polemica di Beppe Grillo sulla presunta inutilità di fare mammografie.
Il leader del Movimento 5 stelle, durante la marcia per il reddito di cittadinanza, si lascia andare a esternazioni assurde su Umberto Veronesi e sulla campagna di informazione che porta avanti da decenni sulla necessità delle mammografie per prevenire il cancro al seno, soprattutto nei casi di familiarità positiva, benché sia consigliabile fare mammografie anche in caso di familiarità negativa. Quale luminare ha suggerito a Grillo di fare una dichiarazione tanto folle? Chi gli ha detto che fare mammografia non serve?
Lo screening mammografico può salvare la vita al 28% delle persone che si sottopongono a test costantemente. È il risultato di uno studio condotto in Norvegia dal 1986 al 2009 su un campione di donne tra i 50 e i 79 anni.
Ovviamente, compresa l’enormità della dichiarazione, Grillo ha poi aggiustato il tiro dicendo che intendeva mettere in guardia chi crede che facendo mammografie non ci si ammali di tumore, ma io credo che, anche nel caso in cui si ritenga questo, cioè che fare mammografie scampa il pericolo di ammalarsi, meglio fare controlli piuttosto che non farne.
Anche il peggiore dei comunicatori – e Grillo non è tra questi – dovrebbe saperlo. Il risultato è che dopo anni di informazione, bastano poche parole in libertà per riportare il discorso intorno alla prevenzione indietro di venti anni.
Ora, le decisioni sulla gestione del budget sanitario rappresentano il cuore del lavoro di una giunta regionale. È dunque importante che i candidati alla presidenza delle regioni del M5S, e in particolare i candidati donna, come Valeria Ciarambino in Campania – regione in cui c’è una maggiore incidenza di cancri al seno probabilmente in conseguenza dell’inquinamento del suolo, delle falde acquifere e dei roghi tossici – prendano posizione sui deliri di Beppe Grillo in materia di prevenzione. La gratitudine per essere stati designati a concorrere per una carica pubblica non può trasformare una persona in un automa che smette di avere un pensiero critico e soprattutto autonomo.
Le posizioni antiscientifiche di Grillo, non stigmatizzate dai 5 Stelle, mi convincono del fatto che in politica l’ignoranza degli onesti è una cosa molto molto pericolosa. Non basta essere incensurati, non condannati, non indagati. Bisogna essere prima di tutto responsabili.
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May 14, 2015
Il giornalista licenziato su ordine del boss nella terra della camorra padrona in redazione
Accade che un giornale locale licenzi un giornalista su ordine di un boss. Accade poi che una sentenza arrivi a confermare l’inchiesta su giornalismo e camorra. Ma com’è possibile che la storia finora sia rimasta nell’ombra?
La vicenda che sto per raccontare parte da un’inchiesta della Dda di Napoli, l’Operazione Caleno portata avanti da Giovanni Conzo ed Eliana Esposito, e da una sentenza le cui motivazioni sono state depositate a febbraio dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere: e dimostra per la prima volta come le organizzazioni criminali gestiscano le redazioni in alcuni quotidiani locali.
Un giornalista che racconta lo strapotere dei clan, un boss che pretende e ottiene il licenziamento del giornalista scomodo, un quotidiano che si piega al boss. Il giornalista si chiama Enzo Palmesano, il boss è Vincenzo Lubrano, la testata è il Corriere di Caserta (oggi Cronache di Caserta) che, insieme a Cronache di Napoli, è un quotidiano dalla storia controversa. Entrambi appartengono al gruppo Libra il cui editore, Maurizio Clemente, è stato condannato per estorsione a mezzo stampa: utilizzava le testate per scopi intimidatori, cioè “o paghi o scrivo contro di te”.
Cronache di Napoli e Corriere di Caserta sono poi diventati famosi – loro malgrado – per aver infangato la memoria di Don Peppe Diana. Tutti ricordano il titolo del Corriere di Caserta: “Don Peppe Diana era un camorrista”. Negli anni, questi due quotidiani hanno pubblicato messaggi dei clan. Quando venne sequestrato il piccolo Tommaso Onofri, Cronache di Napoli titolò: “Tommaso, il dolore dei boss”. I boss volevano mandare ai sequestratori il messaggio: “Provate a toccarlo e in carcere passerete l’inferno “. Quando il corpo di Tommaso fu rinvenuto, il titolo sempre di Cronache di Napoli fu: “Tommaso è morto: l’ira dei padrini”.
Sono titoli dietro ai quali c’è una strategia assai fina: influenzare l’opinione locale per arrivare a determinare la narrazione nazionale. Quando qui arriva un giornalista da fuori fa domande, raccoglie opinioni: e queste spesso sono determinate proprio dalla stampa locale. È così che questi piccoli giornali riescono poi a far passare messaggi che indirizzano l’interpretazione dei fatti. Ed è in questo contesto che ha provato a fare informazione Enzo Palmesano – lui stesso personaggio non ordinario, autodefinitosi “fascista di sinistra” negli anni più duri della guerra di camorra, militante Msi poi promotore al congresso di Fiuggi dell’emendamento con cui An prendeva le distanze dall’antisemitismo.
Cerchiamo allora di conoscerlo più da vicino questo contesto. Vincenzo Lubrano è stato uno dei boss più temuti della camorra campana, legato alla mafia corleonese attraverso il vincolo che univa la sua famiglia a quella dei Nuvoletta, mandatari di Cosa Nostra in Campania. Lello Lubrano, primogenito di don Vincenzo, aveva sposato Rosa Nuvoletta, figlia del capomafia di Marano, Lorenzo. I Nuvoletta, benché napoletani, non sono camorristi, sono l’unica famiglia esterna alla Sicilia che ha avuto un ruolo ai vertici di Cosa Nostra.
Vincenzo Lubrano fu condannato all’ergastolo come uno dei mandanti dell’omicidio del sindacalista di Maddaloni, Franco Imposimato, fratello del giudice Ferdinando Imposimato, l’11 ottobre 1983. E Imposimato fu ucciso per due ragioni: per colpire il fratello del giudice che stava indagando sul riciclaggio di Cosa Nostra a Roma; e perché si batteva sul territorio affinché le colline maddalonesi non fossero divorate dalle cave che oggi le deturpano. L’omicidio Imposimato, avvenuto in terra di camorra, è considerato un delitto di mafia, perché l’ordine ai campani arrivò direttamente dalla Sicilia. Ma tutto lo ricorda solo chi l’ha vissuto sulla propria pelle, perché la maggior parte delle cosche casertane, compresi i Lubrano, hanno sempre preferito mantenere un basso profilo, tenendosi ai margini della cronaca.
Palmesano, invece, scrive e racconta. Scrive del pellegrinaggio che Vincenzo Lubrano, assolto in appello per l’omicidio Imposimato, organizzò con diversi pullman a San Giovanni Rotondo per ringraziare Padre Pio.
Ricorda il restauro che Raffaele Lubrano fece della cosiddetta “Madonna della camorra”, poiché a lei si rivolgevano durante la latitanza a Pignataro Maggiore i boss di Cosa Nostra. Palmesano racconta la presenza di Liggio e Riina sul territorio. Inizia a scrivere tutti i giorni del clan Lubrano e si concentra su Raffaele “Lello” Lubrano, ucciso a Pignataro Maggiore nel corso di una faida che vede coinvolti pignataresi e casalesi.
Il cronista sa che questa storia è nodale per comprendere gli equilibri politici che regolano il territorio. E proprio per questo Vincenzo Lubrano vuole a toglierlo di mezzo.
C’è un’intercettazione telefonica tra Lubrano e Francesco Cascella, il nipote acquisito del boss che medierà tra il clan e il direttore del quotidiano per l’allontanamento di Palmesano. Dice Lubrano:
Ma come si deve fare, non posso, non posso nemmeno andare a pisciare più… ho passato un guaio con questo giornalista.
Mi sta rompendo il cazzo sai perché, mette sempre in mezzo la morte di Lello, che hanno ucciso a Lello, nello stesso articolo. Ma se tu scrivi una cosa che nomini a fare quello che ormai è morto? Hai capito? E qualche giorno mi fa perdere la testa e mi fa passare un guaio grosso. Pure a Marano.
A Marano uccisero Siani, ebbero 7 ergastoli. Quello pure lo stesso rompeva il cazzo a tutti quanti, vedeva a uno di quelli là magari a prendere il caffè, prendeva e scriveva, quello si è stufato e l’hanno ucciso. Hanno avuto 7 ergastoli. Adesso dico io perché devo prendere l’ergastolo per un uomo di merda di quello? Magari, gli devi dire che non nomina più a Lello Lubrano, che lo lasciasse stare in grazia di Dio.
Il riferimento all’omicidio di Giancarlo Siani è particolarmente inquietante perché a farlo è una famiglia legata per sangue e affiliazione agli esecutori di quell’omicidio. I Lubrano, come detto, sono imparentati con i Nuvoletta di Marano, che nel 1985 decretarono la morte del giornalista del Mattino.
Per evitare che parta l’ordine di morte, Cascella va a parlare con il direttore del Corriere di Caserta , Gianluigi Guarino, e gli chiede di ridimensionare Palmesano e di impedirgli di citare nei suoi articoli Lello Lubrano; poi riporta a don Vincenzo il contenuto di quella conversazione:
Comunque, l’importante, ho detto: Gianluigi (Guarino, ndr), che almeno queste due cose qua, ho detto, tu me le fai, me lo devi, perché se no io ti ho sempre fatto un sacco i favori, io a te, Gian-lui’, ho detto, questo, ti ripeto, è mio zio, è il fratello di mia suocera, ti prego, almeno… gli ho detto, facciamo riposare in pace quest’anima che già ne ha passate abbastanza… dice: no, no, dice, digli a don Vincenzo che questo lo può ritenere fatto, per quanto riguarda il fatto di non scrivere dice, piano piano, anche questo Palmesano, dice, mi crea solo problemi.
Poco prima, Cascella attribuisce a Guarino queste parole:
Questo Palmesano è un “cacacazzo”, dice, piano piano se io ci riesco a ridimensionarlo.
Accade dunque che un giornale locale licenzi un giornalista su ordine di un boss. Accade poi che una sentenza arrivi a confermare l’inchiesta su giornalismo e camorra.
Ma com’è possibile che questa storia rimanga nell’ombra?
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May 11, 2015
Amici, il testo del mio intervento
Ecco il testo del mio monologo alla trasmissione Amici del 9 maggio:
Penserete, avendo questo libro tra le mani, “Cosa c’entra? Proprio in questo momento, un libro?” Io credo che invece c’entri molto: nessuno più di un ventenne – perché questa è più o meno la vostra età – ha il diritto meraviglioso di avere un libro tra le mani.
Al libro, in realtà, si arriva da soli, lo so. Suona un po’ paternalistico il consiglio, l’indicazione “leggi”. Sembra quasi come sentirsi dire “ama veramente”, “ascolta buona musica”… Ti senti un po’ invaso quando ricevi il consiglio. Ma mi sono preso questi minuti per invitare a non guardare il libro come una montagna inscalabile, come spesso succede. Spesso si percepisce una raccolta di poesie, un romanzo, un saggio come qualcosa di complicato da affrontare. Invece io vi invito a catapultarvi nelle librerie, a “saccheggiare” libri, a mettere il naso tra le pagine, senza timore: la complessità è una delle cose più belle da affrontare nei libri. Ci sono libri terribili, orrendi, altri invece meravigliosi, ma sta a voi la scelta, ed è leggendo che si comprende la differenza.
Spesso mi è capitato di pensare, avendo un libro tra le mani, che non sono semplici parole, ma qui dentro c’è tempo: tempo per scriverlo, tempo per assaporarlo. Avete tra le mani una cosa preziosa in questo momento, non è un titolo, non è un trailer, non è un flash. Tempo, qualcosa che starà con voi per un po’, che è stato costruito attraverso il tempo. Mi è sempre sembrato, leggendo, di moltiplicare il tempo: è come se la mia vita non mi fosse mai fino in fondo bastata, e leggere mi aumentava la vita. Ma non è perché ti senti più bravo o hai più nozioni: hai più possibilità di percepire le strade dell’esistenza. Umberto Eco dice una cosa anche divertente: “Chi non legge e muore a 70 anni avrà vissuto una sola vita di 70 anni. Chi legge ne avrà vissuti 5 mila. Era presente quando Caino ha ammazzato Abele e quando Giulio Cesare è stato ucciso, e anche alla battaglia delle Termopili e quando Leopardi guardava l’infinito.”
Leggere, in qualche modo, è avere un’immortalità al contrario, è come se ci permettesse di vedere l’intero percorso che ci ha portato qui, quindi vivi di più, sei qualcosa in più.
In questi anni un po’ complicati io ho identificato la mia vita con i libri, cioè dove c’erano i libri lì sentivo casa mia. E forse è proprio per questo che ho scelto oggi di portare questo libro che, quando ero ragazzino, mi piaceva tantissimo: “Le notti bianche”, di Dostoevskij. Il protagonista ha 26 anni, e Dostoevskij non gli dà un nome: lo chiama “Sognatore”. È un ragazzo un po’ solitario, che passa la vita attraversando libri e sognando un’esistenza che sente lontana ma che cerca di avvicinare attraverso le pagine. Sogna anche un amore romantico, che sente irrealizzabile. Però, una notte, succede qualcosa. È una notte bianca.
Le notti bianche sono quelle prime notti d’estate nella Russia del nord in cui il cielo non diventa mai buio e, anzi, è chiaro. Dostoevskij inizia proprio così: “Era una notte incantevole, una di quelle notti che succedono solo se si è giovani, gentile lettore. Il cielo era stellato, sfavillante, tanto che, dopo averlo contemplato, ci si chiedeva involontariamente se sotto un cielo simile potessero vivere uomini irascibili ed irosi”…
La potenza di Dostoevskij risiede nel raccontare il sentimento, l’emozione. Qui forse è bene ricordare che non dovete dare per scontate le emozioni o i sentimenti, in molte parti del mondo non è possibile esprimere emozioni. Ci sono parti del mondo in cui baciarsi in pubblico è reato. Ci sono in molti stati delle regole durissime che impediscono alla felicità di essere espressa. Vi ricordate “Happy”, di Pharrell? Giravano online diverse cover del suo video, ne hanno fatte in tutto il mondo, ovunque. Ebbene, l’hanno fatto anche in Iran: sei ragazzi decidono di fare una cover di “Happy” sui tetti di Teheran, di riprendersi, di postare online il video per raccontare al mondo che anche i giovani iraniani vogliono sorridere, giocare, danzare. La polizia si accorge di questo video, li arresta, li condanna a sei mesi di carcere e a 91 frustate a testa. Una condanna, ricevuta con la condizionale, che li costringerà a chiedere scusa sulla TV pubblica. Il reato è aver violato la morale pubblica: uomini che danzano con donne, su una musica americana… Questo è il peso specifico del provare un’emozione, del provare a condividerla. E non è l’unico caso. Pensate che pochissimo tempo fa, in Libia, i soldati dell’Isis hanno requisito strumenti musicali, tamburi. In altre zone hanno requisito chitarre. Ho portato delle foto che mostrano come raccolgono questi strumenti e gli danno fuoco perché, nella loro folle interpretazione dell’Islam, li considerano strumenti nemici.
Ecco, ancora una volta la musica, l’amore, il sentimento e la condivisione della felicità sono visti con pericolosità. E non è soltanto una questione di fondamentalismo islamico. È successo anche a Miriam Makeba in Sudafrica, è successo – in maniera diversa – a John Lennon negli Stati Uniti…
Insomma, può sembrare incredibile, ma si ha paura dell’amore, del sentimento, perché almeno per un momento, quando provi quell’emozione, pensi che le cose possano cambiare. Queste canzoni, come “Happy”, non sono canzoni di denuncia sociale, non sono dei reportage, delle accuse politiche, no, ma semplicemente ti dicono che vale la pena vivere e vale la pena vivere con felicità, e se vuoi vivere con felicità non subisci quei regimi, vuoi cambiare le cose, vuoi trasformare… È per questo che fanno paura. Ecco perché la potenza del sentimento, che è qui dentro raccontata, è una potenza rivoluzionaria: perché è una traccia che può trasformare realmente il quotidiano.
Questo Sognatore mi ha fatto pensare più volte a una frase di uno scrittore afroamericano, Ralph Ellison. A lui chiesero “Come definiresti il blues?”, e lui rispose “Il blues era quello che gli schiavi avevano al posto della libertà”. I libri in qualche modo sono al posto di qualcosa che ci manca e ci indicano il percorso per trovare quella cosa…
Per concludere, c’è un passaggio in una lettera che Gustave Flaubert scrive a una donna, in cui lui fa il più bell’invito a leggere che io abbia mai sentito nella mia vita: “Non leggete per divertirvi… Non leggete per istruirvi… No, leggete per vivere”.
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August 29, 2013
Roberto Saviano inaugura Festivaletteratura 2013 Mantova, mercoledì 4 settembre
Roberto Saviano autore di Zero Zero Zero inaugura Festivaletteratura 2013 Mantova con un intervento dal titolo
“Tutto è perduto tranne la parola”
Mercoledì 4 settembre, Piazza Castello, ore 17.
per info e prenotazioni festivaletteratura.it
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