Roberto Saviano's Blog, page 26
May 28, 2015
La felicità al potere racconta il miracolo uruguaiano di Pepe Mujica
In 5 anni più del 50 per cento delle favelas di Montevideo, capitale dell’Uruguay, sono state svuotate. Intere famiglie hanno lasciato le baraccopoli e ora vivono in case degne di questa definizione. Non è l’unico miracolo uruguaiano sorto dalle mani di José Alberto Mujica Cordano detto Pepe Mujica. L’ex Presidente dell’Uruguay, conosciuto anche per essere il “presidente più povero del mondo”, dopo 14 anni di carcere scontati per essere stato un guerrigliero Tupamaros ai tempi della dittatura militare di Juan Marìa Bordaberry, ha guidato il suo paese dal 2010 fino al 1 marzo scorso, inaugurando una stagione di rottura sia nell’interpretazione del potere che nella visione delle politiche di sviluppo di uno stato sudamericano.
Pepe Mujica ha rifiutato di vivere nei palazzi presidenziali, preferendo devolvere quasi interamente il suo stipendio ai progetti umanitari per la sua città. A chi gli chiede perché regali il suo stipendio, Mujica risponde “Ho settantotto anni, perché dovrei mettermi adesso ad accumulare soldi?”. Una frase ironica che racchiude il senso di una vita intera, spesa secondo il principio della pratica dei propri ideali, pensieri visionari che non possono fermarsi alle parole, ma declinarsi in fatti e politiche attive, capaci di incidere sulla società. Gli slogan, nella vita di Mujica, non precedono mai la politica, ma seguono all’azione.
Per questo oggi l’ex presidente uruguaiano può parlare dei risultati conseguiti con la legalizzazione della marjuana, il riconoscimento dei matrimoni gay, la depenalizzazione dell’aborto.
“La felicità al potere” è il libro intervista a cura di Cristina Guarnieri e Massimo Sgroi, edito da EIR, che per la prima volta raccoglie la testimonianza diretta di Mujica, che racconta la sua vita straordinaria e l’evoluzione del suo pensiero. Il libro raccoglie anche alcuni dei suoi interventi più significativi, tra cui il famoso discorso pronunciato al G20 in Brasile nel 2012, che dà il titolo al libro e identifica l’intera visione politica di Mujica, dalla necessità di una decrescita sostenibile, alla protezione dell’ambiente, passando per idee rivoluzionarie nella lotta al narcotraffico e alle mafie.
Redazione Si.S
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May 27, 2015
22 anni fa la bomba ai Georgofili. Una strage che rischia l’oblio.
Fu l’inizio di una stagione del terrore con cui la mafia voleva cambiare la geografia e gli obiettivi delle propria strategia criminale.
La strage dei Georgofili è una delle pagine della storia più recente del nostro Paese che rischia di cadere nell’oblio. E’ una delle tre stragi che nel 1993 cambiò la geografia degli attentati di mafia, spostandosi al centro e al nord Italia e che cambiò gli obiettivi, facendo scorrere il sangue fuori dai perimetri malavitosi. Si colpirono vittime tra la “gente comune” e luoghi simbolo della cultura e del patrimonio identitario del Paese.
La prima strage avvenne a Firenze 22 anni fa. Pochi minuti dopo l’una di mattina del 27 maggio 1993, sotto la torre dei Georgofili un’autobomba esplode e uccide 5 persone.
Fabrizio Nencioni aveva 39 anni e faceva il vigile urbano, sua moglie Angela Fiume ne aveva
36. Con Fabrizio e Angela morirono le loro due figlie Nadia di 9 anni e Caterina, di appena 50 giorni. Abitavano all’ultimo piano della torre. La deflagrazione li colse nel sonno. Il Fiorino imbottito di esplosivo era stato parcheggiato tra la torre e un’altra abitazione, la casa dove abitava Dario Capolicchio, studente di 22 anni, la quinta vittima dell’attentato.
Non ci fu nemmeno il tempo per prendere coscienza di quanto accaduto a Firenze, che l’attenzione dovette spostarsi su Milano e Roma. Il 27 luglio la mafia punta la sua ferocia sul padiglione d’arte contemporanea di Milano. Una bomba esplode in via Palestro, muoiono altre cinque persone. La violenza stragista sembra voler disseminare il terrore, ricostruendo un clima di altissima tensione che aveva caratterizzato gli anni ’70. Il giorno dopo, il 28 luglio, due autobombe scoppiano davanti alle chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio in Velabro a Roma.
Di quella pagina oggi non sono stati ancora delineati tutti i contorni. Si deve alle dichiarazioni di un pentito, Gaspare Spatuzza, uno degli artificieri dei Georgofili, l’avvio di indagini che raccolgono elementi per aprire un processo ed arrivare ad alcune condanne all’ergastolo. Solo nel 2013 l’Associazione tra i familiari delle vittime della Strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli, è ammessa come parte civile al processo sulla Trattativa Stato-Mafia.
E’ lo stesso Presidente del Senato Pietro Grasso, allora tra gli inquirenti che indagarono sulle stragi, a dichiarare oggi, nel giorno delle celebrazioni, che “le bombe di Firenze, Milano e Roma, nel ’92 e ’93 furono una sfida alla democrazia e lo Stato di diritto, un tentativo di destabilizzare il Paese le cui cause e le cui conseguenze ancora non sono del tutto chiarite”.
Ma se davvero vogliamo capire cosa sia accaduto e che legami ci siano ancora tra quella stagione di mafia e le dinamiche contemporanee che muovono la criminalità oggi in Italia, non possiamo relegare la ricostruzione dei fatti alle aule dei tribunali. Quelle storie devono uscire dai palazzi di giustizia e dalle carceri e diventare patrimonio comune. O ciascuna strage e ciascun sacrificio sarà colpevolmente passato invano.
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May 26, 2015
Gomorra La Serie 2, in anteprima le immagini dal set
Ricordate la strage di Ferragosto del 2007? Sei giovanissimi, tra i 16 e i 39 anni, uccisi in una sparatoria infernale davanti a un ristorante e finiti dai killer con un colpo di pistola alla testa. La mano omicida era della ‘ndrangheta e sullo sfondo non una cittadina calabra, ma una grande città tedesca, Duisburg. La criminalità organizzata aveva regolato i conti tra clan oltre confine.
Non deve stupirvi che le prime immagini in anteprima di Gomorra II – La serie provengano da un set tedesco. Siamo a Colonia e Düsseldorf, dove le organizzazioni criminali italiane sono di casa. Il ritorno di Pietro Savastano è inserito in un intreccio complesso, una narrazione potente dove ritrovano spessore Ciro Di Marzio e Genny Savastano. Dall’estero si ritornerà in Campania seguendo i fili degli affari tesi tra politica e malavita.
Meccanismi sempre più sofisticati che non possono fare a meno della ferocia di cui si nutre la criminalità, per confermare il proprio potere e misurarlo sul campo.
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La collina
Aspettavo da lungo tempo il nuovo romanzo di Assaf Gavron “La collina”. Ero curioso di entrare in un mondo di cui tanto si legge e di cui tanto si parla, ma dal quale non mi era mai giunta una voce autentica, diretta, eloquente che mi potesse spiegare cosa albergasse nelle profondità di questo mondo. La realtà di cui parlo è quella della vita dei coloni israeliani. Sì, perché “La collina” è il primo romanzo ambientato in una colonia, o ad esser precisi, in un avamposto illegale in Cisgiordania.
Grazie alla scrittura di Gavron ho potuto seguire i meccanismi politici e burocratici che portano alla formazione di questi avamposti, e al tempo stesso entrare nei cuori e nelle menti delle persone che finiscono, per un motivo o per l’altro, per abitare su una splendida collina isolata e ventosa al centro di una terra contesa.
“La collina” è un grande romanzo perché non si lascia influenzare da pulsioni ideologiche o propositi politici; è un libro che racconta con onestà e umorismo, come solo la buona letteratura sa fare, le vite di uomini e donne che il destino ha collocato su un palco assurdo e sorprendente.
C’è Otniel Assis che abita a Maalé Chermech C per coltivare i suoi pomodorini e mosso da motivazioni ideologiche, c’è Jenia Freud che vive in un caravan dell’avamposto per questioni economiche, c’è il comandante Omer Levkovitch che cerca di tenere tutti a bada con la diplomazia, c’è Mussa Ibrahim e i suoi campi d’olivi nel vicino villaggio palestinese, ci sono tanti personaggi suggestivi, ognuno alla ricerca di un sentiero che dia senso alla propria vita; ma soprattutto ci sono i fratelli Cooper, Gabi e Roni, le cui vicende sono raccontate con ispirazione da Gavron. Due orfani, due uomini irrequieti, turbati, mossi da un’energia profonda che li difende dai colpi della vita e che li spinge avanti in cerca di una luce, di una salvezza. Vissuti a lungo in kibbutz, una volta maggiorenni prendono strade diverse, Gabi quella di una vita famigliare a Tel Aviv, Roni quella del rischio e delle speculazioni finanziarie a New York. I reciproci fallimenti li porteranno sulla collina per scoprirsi distanti come non mai, cambiati radicalmente ma in realtà sempre uguali nelle proprie debolezze.
L’ultima pagina si chiude come lo schermo nero di un cinema, lasciandoti sospeso in un finale da compiersi eppure già tutto scritto nelle pagine ricche del romanzo. E chiudendo il libro rimane la sensazione del privilegio ricevuto di aver potuto accedere a un luogo nascosto e protetto, estremo come la luce accecante del sole e la totale oscurità che inondano la collina ogni giorno e ogni notte.
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May 25, 2015
Bambini al lavoro: l’India è vicina
«La politica è l’arte di servirsi degli uomini facendo loro intendere di servirli». Parto da questa osservazione sagace e drammatica dell’intellettuale svizzero Louis Dumur per raccontare ciò che sta accadendo in India, sotto lo sguardo indifferente del resto del mondo. Il governo indiano ha approvato un emendamento al Child Labour Prohibition Act che di fatto proibiva il lavoro minorile a vantaggio di un percorso scolastico certo e più duraturo, e lo ha fatto con due motivazioni sulle quali dovremmo raccogliere tempo e approfondire.
La prima è di carattere pratico: il lavoro minorile, secondo il ministro del Lavoro indiano Bandaru Dattatreya, aiuterà le famiglie più indigenti a uscire da una situazione di estrema povertà. Il secondo è un’assurdità spacciata per buon senso: il lavoro minorile darà ai bambini quello “spirito imprenditoriale” necessario nel loro futuro di lavoratori.
Sul piatto della bilancia da un lato l’istruzione e politiche di welfare su cui non è possibile – o almeno non dovrebbe esserlo – effettuare tagli, dall’altro un impoverimento del mercato del lavoro che si sta spacciando per necessario, anzi benefico.
E se da un lato, in un paese popoloso come l’India, dove spessissimo il lavoro minorile non viene denunciato anzi caldeggiato, è molto difficile dare cifre, dall’altro è pur vero che dal 2001 a oggi il numero di bambini costretti a lavorare era notevolmente diminuito da 12,6 milioni a 4,3 milioni nel 2014 anche grazie a una legge introdotta nel 2009 che prevede educazione obbligatoria e soprattutto gratuita fino ai 14 anni.
Ecco, l’emendamento appena approvato, va esattamente nella direzione opposta, spostando la lancetta dei diritti umani indietro di un decennio e soprattutto allontanando definitivamente la possibilità di emancipazione delle classi sociali più povere – i dalit – e delle minoranze da sempre marginalizzate e costrette ai lavori più umili. Se i bambini possono lavorare, allora prenderanno il posto di molti adulti, che andranno a ingrossare le file dei disoccupati. Se poi i bambini potranno lavorare non avranno tempo per l’istruzione e quindi non avranno alcuna possibilità di migliorare la propria condizione sociale, né di rendere l’India un paese emancipato.
Il Ministero del Lavoro indiano assicura che i bambini potranno lavorare esclusivamente in orario extra scolastico o nei periodi destinati alle vacanze e che sarà punito con aspre pene il datore di lavoro che dovesse trasgredire. Aggiunge poi che i bambini fino ai 14 anni potranno essere impiegati esclusivamente in aziende familiari, non specifica però che in India moltissime aziende sono registrate sotto la categoria di “aziende familiari”.
Tutto questo non dovrebbe suscitare l’interesse e l’indignazione solo delle organizzazioni umanitarie che si occupano di garantire i diritti dei minori, ma dovrebbe essere centrale nel dibattito politico soprattutto delle sinistre di tutto il mondo, che hanno ormai abdicato totalmente al loro principale compito, quello di battersi perché vi siano ovunque condizioni di lavoro dignitose e un salario minimo garantito.
La risposta politica unitaria a un mercato senza regole non può essere più uno statalismo radicale e nemmeno il controllo dei prezzi, ma un vincolo che preveda l’impossibilità di importare e acquistare prodotti provenienti da paesi che non garantiscano salari minimi dignitosi, che consentano il lavoro minorile. Mentre scrivo mi viene in mente un documentario di Luigi Comencini del 1970 “I bambini e noi – La fatica” che racconta la storia sconosciuta dei valani, bambini venduti al lavoro agricolo per un sacco di grano a Benevento. Era una sorta di “attrazione” cittadina, ci si riuniva nella piazza accanto al Duomo, piazza Orsini e lì, nel giorno dell’Assunta, per secoli si è svolta la pubblica vendita di mano d’opera agricola. A denunciare questa pratica fu per la prima volta nel 1950 un articolo che lo descriveva come un vero e proprio mercato della carne umana.
Tutto questo ci sembra lontano, foto e frammenti di video in bianco e nero a segnare la distanza temporale, eppure accade in un mondo che è il nostro, che è ancora più vicino perché l’economia mondiale non è a compartimenti stagni, ma tutto ciò che accade in India ha effetti sulla nostra vita.
Mancanza di democrazia in India e lavoro minorile non pesano nel dibattito italiano. Li crediamo lontani? Nulla di più falso: questi meccanismi sono a un passo dal ritornare nel nostro Sud e non solo.
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May 24, 2015
La cattolica Irlanda dice sì ai matrimoni gay
La cattolica Irlanda è l’undicesimo Stato dell’Unione europea a riconoscere i matrimoni gay. E il primo Paese al mondo a scegliere attraverso un referendum. Oltre a essere lo Stato in cui solo 22 anni fa l’omosessualità era ancora un reato. Un’evoluzione culturale rapidissima e netta, sancita con oltre il 62% di sì. In alcune regioni dell’area di Dublino la percentuale ha raggiunto il 75%.
Le unioni civili tra persone dello stesso sesso erano già legali dal 2010. Venerdì si è votato per introdurre un emendamento alla Costituzione, che può essere cambiata soltanto con un referendum, per sancire che “il matrimonio può essere contratto, in accordo con la legge, da due persone senza distinzione di sesso”.
A poche ore del voto il premier Enda Kenny, praticante cattolico, si era rivolto agli irlandesi rassicurandoli che non c’era nulla da temere a votare a favore di amore e uguaglianza. Mentre fino all’ultimo i preti cattolici avevano messo in guardia i fedeli da una norma che minaccia il “significato fondamentale del matrimonio”. Ieri, a spogli avvenuti, Kenny ha mostrato a tutti quale frontiera abbia raggiunto l’Irlanda sui diritti lgbt: “Con questo referendum il popolo irlandese sta mandando un messaggio pionieristico.”
In Italia siamo fermi al dibattito, che occupa ancora spazi marginali. Il nostro Paese è rimasto tra i pochissimi (solo 9 nell’Unione europea, con Grecia, Cipro e alcuni paesi dell’est) a non avere nemmeno una legislazione sulle unioni civili.
Eppure, uno degli ultimi sondaggi su questo tema (Demos, ottobre 2014) rileva che il 55 per cento degli italiani sarebbe favorevole ai matrimoni omosessuali. Il primo paese europeo a riconoscere i matrimoni gay fu l’Olanda nel 2001, l’ultimo la Slovenia, che ha approvato la legge lo scorso marzo.
In queste ore rimarranno alla storia le foto dei tantissimi irlandesi rientrati per votare. Dall’Inghilterra e in particolare dalla capitale Londra sono partiti all’ultimo momento moltissimi studenti, invitati a partecipare al voto anche con il tam tam sui social media, con l’hashtag #HomeToVote, lanciato su Twitter.
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May 23, 2015
Quando la coca diventa benzina della corruzione

Credit: Reuters
Diosdado Cabello è sotto inchiesta per narcotraffico e riciclaggio di denaro. È il presidente dell’Assemblea Nazionale, il parlamento venezuelano. L’agenzia antidroga federale degli Stati Uniti (DEA) sta svolgendo un’indagine su altri sei alti funzionari dello Stato per lo stesso capo d’accusa, secondo quanto riportato dal The Wall Street Journal in un’inchiesta che ha destato non poco scalpore.
L’inchiesta, partita due anni fa e tuttora nel piano delle indagini, si basa su dichiarazioni di ex trafficanti, militari disertori e di alcuni informatori che hanno potuto osservare da vicino la cupola del presidente venezuelano Nicolas Maduro.
Il 27 gennaio il quotidiano conservatore spagnolo ABC, ha pubblicato le dichiarazioni di Leamsy Salazar, un ex militare venezuelano che accusava Cabello e altri funzionari di essere collusi con il narcotraffico. Salazar è stato il capo della scorta di Cabello e, per dieci anni, lo era stato anche di Hugo Chávez, l’ormai defunto presidente della Repubblica del Venezuela.
Tra i principali sospettati per la presunta rete di narcotraffico, spicca il nome di Tareck el Aissami, governatore di Aragua, uno stato nel nord del Venezuela ed ex Ministro degli Interni. Anche la reputazione di Hugo Carvajal è stata infangata. L’ex direttore dell’intelligence militare fu infatti accusato dagli Stati Uniti nel 2008 di aver preso parte ai traffici illeciti in collaborazione con il gruppo guerrigliero delle FARC, le Forza Armate Rivoluzionarie della Colombia.
Il registro degli indagati non finisce qui. Il fratello di Cabello, ministro dell’Industria è stato coinvolto in affari poco chiari, che vedono protagonisti anche due alti funzionari della Guardia Nacional, il corpo di sicurezza dello Stato.
Eppure, il principale obiettivo rimane Cabello. “Esistono ampie prove a testimonianza che sia Cabello uno dei capi, se non il capo stesso, del cartello”, ha riportato The Wall Street Journal. Salazar ha spiegato come Il Cartel de los Soles trasporti droga con l’aiuto di militari venezuelani e dichiarato che Cabello ne sarebbe a capo.
Cabello ha naturalmente negato le accuse riguardo al presunto collegamento con il Cartel de los Soles, che fino a qualche anno fa era solo una leggenda metropolitana. The Wall Street Journal non ha menzionato il cartello, ma assicura che il Venezuela sia il crocevia delle organizzazioni dei narcotrafficanti da cui parte la cocaina, destinata agli Stati Uniti e all’Europa.
Il colombiano Roberto Méndez Hurtado, processato in Florida, è uno tra i narcos la cui testimonianza conferma le negoziazioni tra il governo venezuelano e i trafficanti. Méndez Hurtado aveva incontrato varie volte gli alti funzionari dello Stato per gestire il trasporto di cocaina dal Venezuela agli Stati Uniti. La cocaina, trasportata dal narco fino in Venezuela, arriva via aerea o navale fino alle isole dei Caraibi, prima di raggiungere la tappa finale negli Usa.
Cabello ha querelato il quotidiano venezuelano El Nacional, nella speranza di riuscire a imbavagliare la stampa. Il direttore del giornale, Miguel Henrique Otero, rivela di aver agito correttamente. La querela è legata alle dichiarazioni pubblicate prima dal quotidiano spagnolo ABC, confermate poi dall’inchiesta del The Wall Street Journal circa le investigazioni della DEA. Nel frattempo, Cabello non ne vuole sapere di concedere un’intervista a El Nacional e mantiene la bocca chiusa. Otero non teme il processo per diffamazione né il carcere.
Il presidente Maduro ha però rotto il silenzio, affermando lo scorso martedì che chiunque vada contro Cabello, stia andando anche contro di lui. Maduro difende il presidente dell’Assemblea Nazionale a spada tratta, dipingendolo come vittima di un attacco mediatico dell’ultra-destra.
Redazione – F. P. B.
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May 22, 2015
Il cliché messicano dei crimini impuniti

Credit: Cuartoscuro/Archivio
Il Messico è stato travolto da un’ondata di violenza in vista delle elezioni politiche con cui si rinnova il parlamento che si terranno il prossimo 7 giugno.
Enrique Hernández, il candidato sindaco di Yurécuaro, un municipio a 420 chilometri da Città del Messico e membro del Movimiento de Regeneración Nacional, è stato ucciso da presunti sicari del crimine organizzato. Gli hanno sparato nella notte di giovedì 21 maggio, al termine di un atto di proselitismo elettorale in occasione di un evento per la sua campagna politica.
La Procura dello stato messicano del Michoacán ha detenuto ventitré agenti di polizia e un civile per interrogarli sull’omicidio in cui sarebbero presumibilmente coinvolti. Hernández destava simpatia in alcuni e inimicizia in molti altri, in seguito alle accuse di cui era stato stato accusato e poi assolto per l’omicidio del sindaco di Tanhuato, Gustavo Garibay, avvenuto nel marzo del 2014.
Dalle indagini emerge che sia proprio questo crimine ad avere un collegamento diretto con la sua morte. Il crimine Garibay non è il primo a restare irrisolto: il 98 per cento dei delitti in Messico rimane impunito, secondo quanto riportato dalla corrispondente spagnola in Messico del quotidiano El País.
Redazione – F. P. B.
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A Gorizia incontrerò i giovani per parlare di storia e legalità
Domani sarò a Gorizia al festival èStoria. Gorizia è una città che porta i segni della grande storia del ‘900 sulla sua fisionomia, nell’identità molteplice della sua cittadinanza, nel suo essere sempre rivolta a Ovest e a Est contemporaneamente.
Sono felice di partecipare a questo evento che lega la storia alla narrazione, indugia nel racconto per approfondire il passato. Sono felice soprattutto perché a Gorizia incontrerò i giovani, a cui è giustamente dedicata l’edizione di quest’anno.
Agli oltre settecento studenti che avrò davanti domani mattina spero di riuscire a trasmettere almeno la curiosità di cercare, di carpire l’oltre dietro la realtà rappresentata, di cogliere storie nostre, che ci appartengono perché le abbiamo ricostruite passo a passo con la ricerca e l’approfondimento.
Spero di trovare davanti a me ragazzi che hanno voglia di leggere, di moltiplicare la propria vita nei libri e che vogliono immaginare un futuro che nasca dalle loro idee. Parleremo anche di legalità e impegno civico, di stupefacenti e criminalità organizzata, senza paura di toccare argomenti difficili, che spesso implicano contraddizioni, paure.
Ai giovani voglio dire di conoscere i luoghi da cui provengono, i fenomeni sociali in cui vivono, di capirne bene le origini e il passato, di fare domande, chiedere sempre conto del come e del perché. E accettare che molto spesso la risposta sia più complessa di quella che ci si aspetta.
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Se il Sud resta indietro, tutta l’italia si ferma
L’economia italiana è più forte o più debole di quel che sembra, a seconda della parte del Paese da cui la si guardi. Lo scrive l’Economist mettendo a nudo, dato dopo dato, l’esistenza di una “questione meridionale” che non solo non è mai morta, ma è sempre più attuale perchè crescente è il divario tra le due aree geografiche del Paese. La storia di due economie, con tassi di crescita e di occupazione, che fotografano due realtà sempre più distanti.
Il dato che più ferisce riguarda l’emorragia di persone. Il Sud si svuota anno dopo anno e perde le sue teste migliori. Perchè c’è una questione “emigrazione interna” che ha proporzioni enormi. Tra il 2001 e il 2013 sono più di 700 mila le persone che si sono spostate da Sud a Nord, di cui il 70% sono giovani di età compresa tra i 15 e i 35 anni, più di un quarto è laureato.
Le aziende che vogliono restare al Sud faticano a trovare laureati da assumere: in pochissimi scommettono sulla propria terra d’origine per costruirsi un futuro.
Più di 940 mila italiani hanno perso il lavoro negli anni della crisi, tra il 2007 e il 2014, il 70% di questi è meridionale. L’occupazione nel Sud è la più bassa d’Europa, solo il 40%, mentre al Nord è del 64. E la condizione del lavoro femminile in Meridione è addirittura molto al disotto del dato della Grecia: 33% il tasso di occupazione femminile al Sud, 42% in tutta la Grecia.
Le disparità tra diverse regioni è un fattore comune in molti paesi. Ma il divario che allontana il Sud e il Nord d’Italia è un fenomeno che non regredisce, tutt’altro. Scrive l’Economist che “il divario tra La Germania dell’Est e quella dell’Ovest all’inizio degli anni ’90 era molto più ampio di quello tra Nord e Sud d’Italia. Adesso è minore”. In meno di venticinque anni la Germania unificata è riuscita a ricomporre anche un’unità economica. In Italia la “questione meridionale” non è ancora stata affrontata con strategie incisive dopo centocinquant’anni.
La gravità della situazione è tale che, in questi giorni, a chiedere di occuparsi del Sud non è solo una comunità marginale di studiosi o giornalisti, ma lo stesso presidente dell’Istat Giorgio Alleva, che nel presentare il rapporto annuale sull’Italia dichiara apertamente che il Mezzogiorno è assente dalle politiche del Paese da troppo tempo e che se non sarà avviato presto un recupero del Meridione, che coinvolga imprese, città, residenti, lo sviluppo e la crescita dell’Italia saranno fortemente penalizzati rispetto a tutti gli altri paesi europei.
Come sempre siamo davanti alla necessità di fissare delle priorità e di orientare il dibattito sui temi che incidono davvero sulla mancanza di sviluppo e sulla difficoltà italiana ad uscire dalla crisi. L’emigrazione interna, la mancanza di investimenti al Sud sia statali che privati, l’incepparsi continuo della pubblica amministrazione che allontana il cittadino dalle istituzioni e lo avvicina sempre più alle logiche distorsive della società messe a frutto dalla criminalità organizzata. Sono questi i temi che chiedono una risposta, perchè la questione meridionale venga invertita e il Sud possa diventare quello che potenzialmente è sempre stato, un altro motore per il Paese.
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